Cerca

Ci chiamavano Libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945

Donatella Alfonso
Genova, De Ferrari, 185 pp., € 16,00

Anno di pubblicazione: 2012

Nel tempo della postmemoria, il libro dimostra che è ancora possibile ascoltare la voce dei protagonisti della lotta di liberazione. L’a., recuperando le testimoni della Resistenza ligure, ci consegna un racconto corale di donne. Nelle storie, brevi tranches de vie, prevale la dimensione soggettiva e l’autorappresentazione, ambiti che storiche e storici in questi ultimi trent’anni hanno frequentato con profitto, alimentando con rinnovata complessità la storiografia sulla guerra e sulla Resistenza. Di particolare interesse, nell’esperienza delle donne, è l’adesione all’antifascismo e la volontà di misurarsi con la sfera pubblica dell’Italia repubblicana. L’a. esalta la soggettività femminile con la forza del racconto orale e del vissuto individuale e fa emergere le ragioni della coscienza nell’agire quotidiano delle giovani, qualificando la scelta antifascista. La consapevolezza politica delle protagoniste, rileva Lidia Menapace nella prefazione, è evidenziata negli «spazi quotidiani, mescolati, tra le case», nella clandestinità con «astuzie e mascheramenti specifici che resero l’intero territorio politicizzato» (p. 9). Un agire politico che solo all’indomani della Liberazione, scrive l’a., quando molte passeranno alla militanza politica, condurrà alla piena consapevolezza delle fatiche e della distanza che ancora le separava dall’emancipazione. Nelle campagne, e soprattutto nelle fabbriche, «la coscienza di classe cresce di pari passo con l’odio verso il fascismo e la necessità di far finire la guerra» (p. 31), mentre la povertà spingeva alla rivolta. Da qui alla lotta armata il cammino era tutt’altro che lineare. Le donne non erano accettate facilmente sui monti a causa di pregiudizi maschili, che le volevano attente solo alle mansioni di «cura» e «collegamento». Ma «avere un’arma in mano» (p. 47) aveva un significato simbolico speciale, decisivo per il pari riconoscimento con i maschi. I pregiudizi degli uomini alimentarono la memoria taciuta e persistettero dopo la Liberazione, spingendo molte ad abbandonare la militanza politica: delusioni e autolimitazioni nell’agire si trovano riflessi in molti racconti di vita, nella maggior parte dei casi celati nella narrazione di sé. Non per M.G. Pighetti (cristiana e anarchica): «E se c’è ancora tanto cammino da fare per le donne, non dimentichiamo che c’è la rabbia dei maschi, che non accettano di essere messi in un ruolo inferiore o che le donne scelgano per sé. Per questo c’è tanta violenza, perversione, schiavitù persino. D’altronde forse nemmeno quelli che conoscono un poeta raffinato come Novalis ricordano che scriveva, rivolgendosi alla fidanzata diciottenne morta Sono contento che tu sia morta perché ora sei veramente mia. E le cose non son cambiate, quante donne vengono uccise perché gli uomini dicono tu mi fai rimanere solo, ma tu sei solo mia?» (p. 123).

Marco Minardi