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I lunghi anni Sessanta. Movimenti sociali e cultura politica negli Stati Uniti

Bruno Cartosio
Milano, Feltrinelli, 396 pp., € 25,00

Anno di pubblicazione: 2012

In questo volume, bello e denso, Cartosio comincia dalla «fine», dalle elezioni del primo presidente nero nel 2008. Non sostiene come T. Hayden (The Long Sixties. From 1860 to Barack Obama, 2009) che l’elezione di Obama non sarebbe stata possibile senza i «Sixties», ma per lui i temi che vi hanno condotto – discriminazione razziale e sessuale, sperequazioni sociali, ruolo di grande potenza degli Stati Uniti e loro rapporto con la guerra – sono gli stessi che i movimenti sociali sollevarono negli anni ’60, avviando la società americana al cambiamento. Il volume è ricchissimo e non facile perché intreccia eventi e memorie, dibattiti coevi e discussioni storiografiche attuali in una narrazione diacronica che considera gli anni ’60 un «contenitore» troppo stretto per capire e interpretare i mutamenti del decennio che prende avvio dalle battaglie per i diritti civili a metà anni ’50 per arrivare alla sconfitta nel Vietnam.
Ci sono dunque le battaglie desegregazioniste negli Stati del Sud, i sit-in dello Student non Violent Coordinating Committee e l’esperienza della Student for a Democratic Society, la guerra fredda culturale, le contraddizioni di Johnson, Martin Luther King e la Southern Christian Leadership Conference, la parabola della controcultura, fino ai movimenti delle donne – la National Association of Women e lo Women’s Liberation Movement. Ma ci sono anche i movimenti contro la guerra, le alterne vicende della New Left e i movimenti che si sviluppano negli anni ’70: ambientalisti, gay, ispanici, nativi, dei consumatori. Mai semplificate, le loro storie vengono scavate servendosi di una quantità e diversità di fonti che fanno del volume molto più di una storia culturale di quel periodo. Cartosio non «abbraccia» mai tesi storiografiche consolidate, ma ne elabora di nuove e originali. Se con S. Whitfield (How the Fifties became the Sixties, 2008) indica una continuità con gli anni ’50 – il decennio della prosperità e degli alti standard di vita, ma non di libertà personale, autonomia, uguaglianza, inclusione –, amplia il discorso introducendo con forza l’esperienza delle lotte operaie e il ruolo dello Stato nella repressione e il declino dei movimenti. L’a. critica infatti gli studi che, pur tentando una visione d’insieme, non riescono a inserire la «crescente “propensione alla violenza” dei movimenti tra fine anni Sessanta e i primi anni Settanta» (p. 307) nel quadro della politica repressiva messa in atto dal governo americano. Di grande interesse il capitolo Beat, hippie e controcultura in cui l’a. analizza i tre fenomeni nell’ambito di una più ampia analisi della questione giovanile maturata negli anni ’50, sempre tenendo fede all’obiettivo, pienamente raggiunto, che permea il volume: intersecare il piano del reale e quello del simbolico mantenendoli distinti. Il volume di Cartosio e la sua tesi forte – i movimenti come aspetto fondante della democrazia americana – portano un contributo di grande rilievo non solo alla storia dei Sixties, ma a quella dell’intero dopoguerra. Il discorso di Obama in occasione del suo secondo giuramento (gennaio 2013), con la forte attenzione su donne, giovani, minoranze etniche, gay, rafforza le premesse del volume.

Elisabetta Vezzosi