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La guerra delle sinistre. Socialisti e comunisti dal ’68 a Tangentopoli

Marco Gervasoni
Venezia, Marsilio, 204 pp., € 19,00

Anno di pubblicazione: 2013

Nel volume si mettono a frutto interessi di ricerca già emersi in un volume collettaneo
su Socialisti e comunisti negli anni di Craxi (curato insieme a G. Acquaviva, Marsilio
2011). Si aggiungano due volumi di inquadramento: come autore (Storia dell’Italia degli
anni Ottanta. Quando eravamo moderni, Marsilio 2010) e come promotore di una Storia
delle sinistre nell’Italia repubblicana (Marco editore, 2011).
In questo libro si coniuga la storia delle sinistre con quella degli anni ’80. Si rimarca
una presenza plurale, competitiva e conflittuale; al punto tale da impedire l’espressione di
una effettiva leadership di governo. L’autore connota il decennio ’80 come un momento
di modernizzazione, contraddicendo le tesi di chi invece insiste sul «disvelamento» di
radicati dilemmi nonché sullo stravolgimento del tessuto civico e politico repubblicano.
Il volume si snoda attraverso quattro capitoli, che vanno dalle eredità del Sessantotto
fino allo scoppio di Tangentopoli nel 1992. Esso si dispiega sulla base di alcune chiavi di
lettura. La prima è la seguente: che «un fattore fondamentale per spiegare il fallimento
della sinistra, il suo essere figlia di un dio minore, sia da cercare nel peso abnorme esercitatovi
dal comunismo e nella scarsa volontà prima, nella incapacità poi, dei socialisti di
controbattere a questa egemonia» (p. 8). La seconda riguarda il «peccato originale» del Psi:
«quello che, nel 1947, unico partito socialista in un paese del blocco occidentale, lo aveva
portato ad allearsi col Pci staliniano» (p. 9). Se queste erano le premesse, si comprende
allora come la sfida riformista posta dal nuovo leader socialista Bettino Craxi all’egemonia
nella sinistra del Pci di Enrico Berlinguer abbia infine prodotto la sconfitta di entrambe
le culture politiche.
Si insiste nel rimarcare la modernità del socialismo craxiano (pur senza dare concretezza
ad aspirazioni e progetti) e invece l’anacronismo della politica consociativa comunista
(verso la Dc), incapace di svincolarsi del tutto dalla genealogia leninista nonostante
le spinte delle minoritarie componenti riformiste. L’autore indica a ragione che Craxi
colse prima di altri il declino irreversibile del Pci (pp. 59 ss.) e bene documenta le sue
ripetute sfide politico-culturali. È però questo privilegiato approccio, di storia dei gruppi
dirigenti e delle loro relazioni (anche tramite le memorie dei protagonisti), che non permette
di sviluppare un tema essenziale: come fu possibile che, nonostante tutte le avverse
«repliche della storia» e l’elefantiasi della leadership, tanti italiani continuassero a votare
il Pci e soprattutto perché quegli stessi elettori (a differenza di quello che era avvenuto in
altre sinistre europee) non assecondarono le ansie di espansionismo del Psi craxiano? Per
sciogliere questo fondamentale quesito, l’impressione è che occorra allargare al piano antropologico
e sviluppare le suggestioni, pur presenti, di una storia delle culture politiche
territoriali; il vero luogo di persistenza dell’egemonia comunista, almeno fino al fatidico
triennio 1989-1992.

Maurizio Ridolfi