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Giuseppe Filippini e il socialismo riformista. Dalle leghe di resistenza alla Costituente

Luca Gorgolini
Ancona, Il lavoro editoriale, 190 pp., € 25,00

Anno di pubblicazione: 2013

Giuseppe Filippini (1879–1972) è una delle figure preminenti del socialismo marchigiano
della prima metà del ’900. Pesarese, formatosi alla scuola di Antonio Labriola ed
Enrico Ferri, avvocato di professione, Filippini viene eletto deputato nel 1919 e nel 1921.
Da sempre oppositore della linea massimalista, partecipa nel 1922 alla scissione del Psu di
Matteotti, Treves e Turati. Eletto alla Costituente, segue nel 1947 la scissione di Saragat e
resta nel Partito socialdemocratico anche negli anni successivi.
Il volume analizza la parte forse più significativa della sua esperienza politica concentrandosi
soprattutto sull’età giolittiana e sul primo dopoguerra, mentre più compressa
risulta la parte dedicata agli anni della Resistenza e della Costituente. L’a. sopperisce almeno
parzialmente a una certa carenza nella documentazione – fondata in prevalenza su
interventi tratti dalla stampa socialista locale – attraverso una puntuale ricostruzione del
contesto politico e socio-economico. Emerge, in particolare, il «salto di qualità» compiuto
dalle leghe contadine ed operaie nel primo quindicennio del ’900 che porta il pesarese –
un territorio caratterizzato dalla conduzione mezzadrile, da esperienze industriali ancora
limitate e, specie nell’entroterra, da un sistema di produzione fondato sull’autoconsumo
– ad essere una delle «provincie rosse» d’Italia.
L’interesse del lavoro, tuttavia, non si limita al solo contesto marchigiano. L’esperienza
politica di Filippini fornisce diversi spunti di riflessione sul tema del riformismo
socialista e della sua costante «minorità» nella storia italiana. Pur senza approfondire la
formazione dell’avvocato pesarese, l’a. mette subito in evidenza la sua adesione alla pratica
gradualista, concentrata sul rafforzamento delle organizzazioni dei lavoratori e il loro
inserimento legale nella vita del paese. Questa linea appare vincente specie negli anni
tra il 1906 e il 1911, quando i socialisti riescono ad ottenere un’importante riforma del
patto colonico per i mezzadri e i primi successi elettorali, ma entra in crisi con l’esacerbarsi
dello scontro politico in seguito alla guerra di Libia e al primo conflitto mondiale.
In questo modo anche nel pesarese il «balzo in avanti» del socialismo nel 1919 coincide
con la messa in minoranza della corrente riformista. Una sconfitta per certi aspetti ancora
più bruciante del riformismo socialista si ha nel secondo dopoguerra, quando Filippini,
riemerso dopo la sostanziale inattività del periodo fascista, si deve confrontare con un
modello organizzativo nuovo come quello del Partito comunista, formatosi in gran parte
negli anni della clandestinità e della Resistenza. Al Pci togliattiano, considerato come del
tutto estraneo alla tradizione socialista, Filippini si contrappone in maniera netta, anche
a costo di sostenere la partecipazione dei socialdemocratici ai governi guidati dalla Dc e
aderendo con convinzione all’effimero esperimento del nuovo Psu nel 1966.
Chiude il libro un’appendice documentaria che raccoglie alcuni interventi di Filippini
dal 1913 al 1965.

Luca Bufarale