Cerca

Costruire l’immaginario fascista. Gli inviati del «Popolo d’Italia» alla ricerca dell’altrove (1922-1943)

Alessia Pedio
Torino, Zamorani, 236 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2013

Studiosa del fascismo e dei suoi media, Alessia Pedio affronta in questo volume un
tema originale: le strategie attraverso le quali il fascismo ha usato il «Popolo d’Italia» per
costruire negli italiani un immaginario coloniale. Analizzando i reportage apparsi sulla
«terza pagina» del quotidiano fascista – uno spazio spesso eterogeneo rispetto al resto del
giornale, in cui non di rado si sono insinuati articoli con posizioni eccentriche rispetto
a quelle ufficiali – l’a. ricostruisce le narrazioni di alcuni dei più importanti giornalisti
dell’epoca e il loro racconto di quello che nel titolo viene indicato come l’«altrove». Non
c’è soltanto la retorica dei barbari da civilizzare, in questi articoli. C’è infatti molto di
più. C’è ad esempio Mario Appellius, giornalista importante dell’epoca, che si interroga
con sincerità sugli effetti dell’occidentalizzazione imposta alle popolazioni africane; e
c’è Arnaldo Cipolla, altra firma di primo piano, che nell’ottobre del 1933 afferma che
l’«umanità equatoriale», più che di essere civilizzata, avrebbe bisogno di «essere lasciata in
pace» (p. 97).
Certo, la retorica, in questi articoli, è ben presente, del resto è noto quale fosse il
compito che il fascismo attribuiva ai giornali e in particolare al più «ufficiale» di essi: «In
un regime totalitario, […], la stampa è un elemento di questo regime, una forza al servizio
di questo regime» recitava la voce Giornale e giornalismo dell’Enciclopedia Italiana (cfr.
p. 13). Ma dal volume appare un altro fattore che, forse, l’a. avrebbe potuto mettere in
maggiore rilievo: la confusione. Spesso, infatti, i giornalisti che devono raccontare i popoli
colonizzati, le loro tribù, le usanze, i riti sembrano davvero confusi, storditi da quanto sia
enorme l’alterità di queste comunità. Ed è proprio in quell’abisso che separa il giornalista
fascista, tutto «libro e moschetto» che cerca di leggere l’«altrove» coi suoi modesti strumenti
interpretativi, e una realtà che trova ben diversa da quella che la retorica gli aveva
descritto, che si creano queste sfasature fra l’interpretazione «ufficiale» che egli sarebbe
tenuto a fornire e quella che poi finisce scritta nei reportage. Spesso a questa confusione
se ne aggiunge un’altra, che riguarda gli stili narrativi: se dapprima i mondi colonizzati e
da colonizzare era stati rappresentati da una propaganda che sfornava principalmente romanzi,
con l’avvento del reportage giornalistico lo stile comunicativo finisce per rimanere
spesso a metà strada tra quello del giornalista e quello del romanziere, con tutto il suo
insieme di esagerazioni e di contorsioni linguistiche.
Questo volume, grazie alla finezza interpretativa dell’a., ci restituisce, dunque, un
panorama ricco e articolato, in cui il giornalismo si dibatte fra il bisogno di creare quel
senso di «disprezzo e paternalismo» verso il diverso (p. 91), a cui il regime tiene tanto, e
la voglia di raccontare la bellezza di «Ercoli nudi, lucidati dal sudore, colati dalla natura
in calchi atletici» (p. 88): due necessità diverse, che convivono però in questa pagina del
giornalismo italiano.

Marco Albertaro