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«Non credo neanch’io alla razza». Gentile e i colleghi ebrei

Paolo Simoncelli
Firenze, Le Lettere, 235 pp., € 16,50

Anno di pubblicazione: 2013

Il volume è incentrato sugli interventi del filosofo Gentile a favore di colleghi ebrei
all’indomani delle leggi razziste del 1938. Segue in particolare le vicende – la prima con
esito positivo, la seconda negativo – dell’accoglienza in Italia presso la Scuola Normale
dello studioso tedesco Paul Oskar Kristeller e poi del sostegno alla sua emigrazione e sistemazione
negli Stati Uniti; e quella della curatela di un volume dell’edizione nazionale
delle opere di Ugo Foscolo da parte di Mario Fubini, proibita dai provvedimenti razziali.
Ricostruisce inoltre alcuni altri episodi positivamente risolti grazie a Gentile – pur nel
contesto doloroso della persecuzione e dell’esilio – anche a favore di noti antifascisti come
Rodolfo Mondolfo, che ottenne una cattedra in Argentina.
Concentrandosi in particolare sugli italianisti per la vicenda dell’edizione di Foscolo
che attraversa tutto il volume, l’a. mostra come, più di Gentile, molti colleghi non solo si
adeguarono immediatamente con atteggiamento conformistico ai provvedimenti razzisti,
ma in taluni casi ne approfittarono («È doloroso che bisogna approfittare delle disgrazie
altrui per i nostri interessi», scriveva Luigi Russo suggerendo di valorizzare una sua antologia
dopo il ritiro di quella di Attilio Momigliano, p. 94), o addirittura li approvarono
(come Vittorio Cian che li definì in Senato «provvid[i] e tempestiv[i]», p. 173 n). Resta
che Gentile, pur impegnandosi personalmente per la sorte di colleghi ebrei e a quanto
pare criticando la svolta razzista anche con Mussolini personalmente, non si espresse pubblicamente
contro le «leggi razziali». L’a. respinge questa tesi, ma gli sparuti riferimenti in
discorsi che cita a dimostrazione di un pronunciamento esplicito di Gentile non sembrano
discolpare il filosofo poiché ad esempio la «collaborazione tra le razze» nel futuro «nuovo
ordine» internazionale, invocata nel corso della seconda guerra mondiale, non avrebbe
potuto che escludere gli ebrei, considerato che quel «nuovo ordine» proprio sul razzismo
e l’antisemitismo doveva fondarsi. Né il ricordo pubblico del maestro D’Ancona, definito
«israelita, ma d’eccezione», lo portava a distaccarsi dalla retorica della fase razzista.
L’a. si preoccupa soprattutto di sottolineare come alcuni giovani, futuri noti intellettuali,
studiosi e uomini politici nell’Italia repubblicana fecero di peggio scrivendo a sostegno
dell’antisemitismo fascista anche nella fase di Salò e poi «cancellando le tracce» dei
propri scritti (a proposito di questo definisce «magistrale» la «codificazione concettuale»
contenuta in un volume del giornalista Pierluigi Battista, p. 15 n.). E nell’esordio del libro
a lungo si sofferma sul filofascismo del giovane Arnaldo Momigliano, con insistenza che
pare incongrua rispetto agli scopi del suo studio. Il silenzio degli intellettuali italiani di
fronte alle persecuzioni antiebraiche fu assordante: Giovanni Gentile non si discostò sulla
scena pubblica da questo atteggiamento maggioritario e nemmeno allora prese le distanze
da quel fascismo che con dedizione e in profondità aveva contribuito a plasmare anche
nei suoi aspetti più intrinsecamente antidemocratici.

Simon Levis Sullam