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Tra diritti umani e distensione. L’amministrazione Carter e il dissenso in Urss

Umberto Tulli
Milano, FrancoAngeli, 256 pp., € 32,00

Anno di pubblicazione: 2013

Il titolo del volume non rende giustizia all’interesse che esso può suscitare tanto
presso gli «addetti ai lavori» quanto per un pubblico vasto. Ben più che concentrarsi sulla
parabola dell’amministrazione Carter e dei suoi travagliati rapporti con l’Unione Sovietica,
il libro ripercorre l’ascesa negli Stati Uniti sin dagli anni ’60 del tema dei diritti umani
come elemento del discorso politico; si configurava così in termini parzialmente nuovi il
recupero sul piano retorico del «primato morale» rivendicato all’inizio della guerra fredda
e appannato dagli anni dell’amministrazione Nixon. Tulli sottolinea come i diritti umani
siano così diventati anche un metro di giudizio pubblico per la condotta internazionale
delle autorità politiche. Non a caso, l’a. fa un uso accorto anche degli archivi di organizzazioni
internazionali non governative (come Amnesty International) che di quell’ascesa
furono al contempo artefici e beneficiarie, e che sull’onda del nuovo interesse pubblico
videro accrescere il proprio peso nel dibattito politico in termini del tutto inediti.
Certamente il libro è anche la storia di una tensione irrisolta per l’amministrazione
Carter, che l’avrebbe in definitiva condannata ad apparire eternamente incoerente
e l’avrebbe sottoposta a una lunga damnatio memoriae: da un lato vi era l’aspirazione a
legare la condotta nei confronti dell’Unione Sovietica a principi morali ferrei e inalterabili
che restituissero al paese l’afflato messianico smarrito nelle paludi vietnamite e offuscato
dalla spregiudicata Realpolitik «nixingeriana»; e dall’altro l’interpretazione delle esigenze
di sicurezza e di promozione dell’interesse nazionale che di quel breve corso «realista» (o
sedicente tale) avevano costituito le premesse. È lungo queste direttrici che l’universalità
connaturata al discorso dei diritti umani si sarebbe rivelata una guida difficile per l’amministrazione
Carter, data la rinuncia al suo perseguimento in molte aree del globo in cui gli
stessi Stati Uniti erano complici conclamati della loro violazione. Stretta tra l’incapacità
di definire un approccio di politica estera conseguente e complessivo, e l’impossibilità di
un ripiegamento sulla «politica realista» del predecessore (contro cui Carter aveva guadagnato
buona parte del suo consenso elettorale), l’amministrazione cedette progressivamente
terreno alla sempre più feroce critica della «destra». Quest’ultima avrebbe nutrito
ben minori remore nello sciogliere il dilemma tra urgenze di coerenza e universalità, e la
volontà di dotarsi di un nuovo, spregiudicato dispositivo politico per rilanciare le ragioni
del conflitto con Mosca.
Negli anni a venire è lecito attendere disamine meno ideologicamente impegnate
che in passato su quanto e in che modo l’uso ancora più assertivo, selettivo e strumentale
del tema da parte dell’amministrazione Reagan abbia contribuito alla conclusione del
conflitto bipolare, e soprattutto abbia avanzato o meno la causa stessa dei diritti umani
nel mondo. Rispetto a tutto questo, certamente il libro di Tulli costituisce un passo nella
giusta direzione.

Giovanni Bernardini