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I signori del terrore. Polizia nazista e persecuzione antiebraica in Italia (1943-1945)

Sara Berger (a cura di)
Verona, Cierre, 256 pp., € 13,60

Anno di pubblicazione: 2016

Il volume raccoglie una serie di contributi volti a ricostruire la topografia del terrore nazifascista in Italia dalla firma dell’armistizio fino alla Liberazione.
I saggi affrontano varie questioni legate alle politiche persecutorie avviate nella penisola per mano dell’esercito e della polizia nazista, coadiuvati nei loro crimini dagli uomini della neonata Repubblica sociale italiana. L’esposizione delle diverse attività svolte dal capo della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza in Italia Wilhelm Harster e dall’ufficio da lui guidato di stanza a Verona poggia su un solido apparato documentario – proveniente da archivi tedeschi, italiani e russi – che permette agli aa. di definire modi e tempi con cui vennero impartiti ed eseguiti gli ordini di perseguitare, deportare, uccidere tutti quei soggetti ritenuti non atti alla vita e dunque destinati all’eliminazione. Di particolare interesse risulta essere la messa a fuoco dell’intreccio fra burocrazia e ideologia fin dai primi giorni dell’instaurazione dell’ufficio scaligero: legame che appare indissolubile nel momento in cui al culto dell’efficienza tecnico-amministrativa proprio della dottrina nazional-socialista si aggiunge quello della devozione al Führer – personificazione di una Germania invitta, suprematista, compattamente unita – caratterizzante la mentalità degli uomini chiamati a rendere operative su suolo italiano le direttive provenienti da Berlino.
Sono proprio questi uomini a essere al centro di alcuni articoli, fra i più originali del volume, che hanno il pregio di spostare la narrazione storica dal piano delle vicende politico-militari a quello della ricostruzione del loro vissuto biografico. È una vera e propria élite quella chiamata a servire e costruire il terrore poggiato sull’ethos nazista. Uomini accuratamente scelti sulla base delle loro capacità organizzative, dotati per la maggior parte di dottorati in giurisprudenza o comunque di un’istruzione di gran lunga superiore alla media della popolazione, provenienti da contesti medio-alti della borghesia tedesca di orientamento nazionalista.
Giunti in Italia dopo pregresse esperienze maturate in altre parti dell’Europa occupata in veste di «liquidatori» di popolazioni cosiddette inferiori, la parabola politica di questi «signori del terrore» ci parla di una rapida ascesa, economica e sociale, in qualità di «specialisti» accuratamente selezionati per la realizzazione del progetto egemonico del Reich. Fanatismo ideologico e avidità di compiere una rapida carriera sono le componenti che più si evidenziano nel leggere le pagine dedicate a questi professionisti dell’intelligence nazista che, da Verona fino a Roma, ebbero il compito di eseguire deportazioni di massa, rastrellamenti, stragi di civili. Figure di primo piano dunque, che a guerra conclusa, pur riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità, non scontarono, se non in minima parte, la pena prevista dai processi a loro carico. Crollato il regime, si reintegrarono nella Germania Federale da liberi cittadini, ripresero a lavorare, morirono con la fierezza di aver servito il proprio paese.
Elena Mazzini
Giampietro Berti, Carlo De Maria (a cura di), L’anarchismo italiano. Storia e storiografia, Milano, Biblion, 595 pp., € 35,00
Il testo prende le mosse da due seminari promossi dall’Archivio Famiglia Berneri/Aurelio Chessa e dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia nel 2013 e nel 2014. È un lavoro collettivo volto a fornire un bilancio critico degli studi sul movimento e il pensiero anarchico in Italia che, solo in tempi più recenti, hanno conosciuto un certo sviluppo. Pur ripercorrendone in larga parte le vicende storiche, viene offerta una mappatura concettuale corrispondente, da una parte, a una periodizzazione dei diversi stadi di affermazione dell’anarchismo e, dall’altra, a un’articolazione per temi e interpretazioni utili alla composizione di un quadro unitario e a definire i contorni di un’identità culturale complessa.
Non disponendo della cornice di un partito, la storia del movimento libertario è più difficilmente inquadrabile sotto la lente della sola politica e necessita di strumenti multidisciplinari come quelli propri dell’indagine sociale e culturale. La storia dell’anarchismo è, infatti, storia di sociabilità e di reti di relazioni, spesso mutevoli e informali, in territori da esplorare anche nella loro accezione immateriale e non solo geografica. Un filone di ricerca essenziale è quello biografico, che permette di comprendere il susseguirsi delle diverse generazioni fino a delineare biografie collettive o ricostruire i percorsi di interi nuclei familiari, ma anche di far emergere con maggiore chiarezza il protagonismo della militanza femminile. D’altra parte, la ricostruzione della dimensione transnazionale si avvalora negli studi della global labour history e della storia dell’emigrazione fornendo intrecci metodologici e disciplinari ulteriori, così come pone la necessità di individuare fonti specifiche. Ad essere affrontati sono, inoltre, i temi più recenti posti dagli anarchist studies volti a riconsiderare i parametri dell’anarchismo classico e per lo più incentrati su motivi specifici, come quelli ecologici, o le diverse influenze artistiche e letterarie, per loro natura sfuggenti a una lettura solo politica. Particolarmente interessante è il discorso sulle fonti che, sebbene in larga parte andate disperse, sono rinvenibili, oltre che nelle carte cosiddette «nemiche» degli archivi di pubblica sicurezza, in una miriade di centri studi, archivi e biblioteche, ovvero i luoghi della memoria e dell’autoriconoscimento identitario.
Il testo curato da Berti e De Maria si inserisce nella scia di altri lavori, anche se di natura diversa, che aggiorna, come Questioni di storia del socialismo di Leo Valiani (Einaudi, 1975) o gli atti del convegno promosso dalla Fondazione Einaudi nel 1969 Anarchici e anarchia nel mondo contemporaneo (Fondazione Einaudi, 1971). Benché di facile e anche appassionante lettura, è uno strumento complesso, utile a definire una mappatura storiografica dell’anarchismo italiano ma anche a precisare l’utilizzo di categorie e metodologie spesso problematiche e controverse, fornendo motivi di innovazione alla ricerca in un campo ancora largamente da scoprire.
Roberto Carocci
Francesco Bianchi, Giorgio Vecchio (a cura di), Chiese e popoli delle Venezie nella Grande Guerra, Roma, Viella, 556 pp., € 48,00
Oltre 500 pagine, 18 relazioni e 4 sezioni. I numeri non dicono tutto, ma offrono consistenza a due iniziative tenutesi a Trento e ad Asiago (nel 2016) e fuse in un volume dell’Istituto di Storia di Vicenza (ora trasformato in Fondazione) diretto da Giorgio Cracco. I saggi si muovono su due piani: il ruolo della Chiesa nel complicato scenario del conflitto e quello della gerarchia religiosa delle Venezie, una delle zone nelle quali il conflitto assunse i toni più aspri.
Benché su questi temi non manchi una ricca produzione storiografica, merito del volume è quello di suggerire nuovi percorsi e di aggiungere tasselli alla ricostruzione di quattro anni di guerra: dai tentativi del pontefice di porsi come mediatore di istanze di pace, al valore religioso della guerra, percepita come un’altra «guerra di religione» (p. 41), al ruolo dei cappellani militari nell’operare sul fronte quando «l’odio era così divenuto la parola d’ordine» (p. 163), alla rappresentazione della guerra da parte dei parroci friulani a fronte di «un mondo che si muove» (p. 375), al ruolo dei sacerdoti nel favorire e conservare le migliaia di lettere scritte dal fronte in un’opera di prezioso raccordo tra «il militare e il paese, raccomandando pazienza, amor patrio, preghiera costante, rassegnazione e spirito di sacrificio» (p. 413), alle diverse forme di assistenza verso i più deboli e marginali, come quella svolta dalle due comunità dorate di Valdobbiadene, con «50 ammalati e 300 donne pazze da accudire» (p. 469).
Si potrebbe continuare. Dalle pagine emergono, infatti, in controluce altri nodi storiografici meritevoli di ulteriori approfondimenti. A cominciare dal ruolo della Santa Sede destinataria, tramite la Nunziatura di Monaco guidata da Eugenio Pacelli, di numerose proposte di pace sin dal 1916 quando Matthias Erzberger cercò di coinvolgere la Santa Sede in trattative di pace fra i due fronti. I risultati negativi dipesero, in parte, dal fatto che il pontefice non rappresentava uno Stato, ma soltanto un’altissima autorità morale che le forze dell’Intesa non erano disponibili a prendere in considerazione. Del resto era lo stesso Benedetto xv a rammentare, con rassegnata preoccupazione, di essere soltanto usufruttuario di pochi ettari di terreno e nulla più; non è implausibile pensare che anche questa esperienza abbia concorso a favorire la ricerca di una soluzione della questione romana.
Oppure, quale atteggiamento tenere nei confronti dei cappellani militari cattolici presenti negli eserciti nemici? E, per terminare – lo spazio è tiranno – alle diverse forme di devozione laica e religiosa che si esplicano, nel primo caso, in forme di offerte alla patria, in Italia e nelle colonie italiane, e, nel secondo, nel fiume di denaro per messe inviato allo stesso pontefice da parte di molte comunità cattoliche tedesche e austriache, pur ben sapendo che molte di queste disponibilità sarebbero state utilizzate in paesi «nemici».
Annotazioni essenziali, dunque, per un volume che ha il pregio non solo di raccontare ma anche di stimolare nuove ricerche.
Maurizio Pegrari
Donatella Bolech Cecchi, Eitel Friedrich Moellhausen. Un diplomatico tedesco amico degli italiani (1939-1945), Soveria Mannelli, Rubbettino, 137 pp., € 14,00
Moellhausen è stato console in Italia durante la seconda guerra mondiale, svolgendo incarichi di un certo rilievo tra il 1943 e il 1945. Fu console generale a Roma successivamente all’8 settembre e, dopo l’arrivo degli alleati in città e il conseguente trasferimento al Nord, divenne collaboratore nonché uomo di fiducia di Rudolf Rahn, ambasciatore del Reich presso la Repubblica sociale italiana. L’a. ricostruisce la carriera di Moellhausen e soprattutto la sua missione in Italia, basandosi sulle memorie scritte dallo stesso Moellhausen dopo la guerra e sulle interviste ai discendenti del diplomatico tedesco, nonché sulle edizioni a stampa dei documenti diplomatici italiani e tedeschi (manca tuttavia un confronto con le fonti d’archivio italiane e tedesche).
Nel corso della sua missione Moellhausen si sarebbe sempre mostrato amico degli italiani, cercando di stemperare la rigidità dell’occupazione tedesca e intervenendo in più occasioni a favore di italiani ed ebrei (italiani e non). In ogni caso, le buone intenzioni e le concrete azioni di Moellhausen non sembrano aver prodotto significative conseguenze a vantaggio della popolazione in occasione dei due episodi più noti e tristi verificatesi nel corso della sua missione romana: il rastrellamento degli ebrei del ghetto (16 ottobre 1943) e le incredibili misure punitive messe in atto dai tedeschi dopo l’attentato dei Gap di via Rasella (23 marzo 1944), che portarono all’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944).
Da un punto di vista prosopografico, la storia ricostruita dall’a. rappresenta un contributo significativo. Una più raffinata comprensione delle dinamiche dell’occupazione tedesca necessita di un’aggiornata e dettagliata mappatura del personale diplomatico tedesco in servizio in Italia tra il 1943 e il 1945. Tuttavia, l’effettivo rapporto tra Moellhausen e l’ideologia nazista poteva essere maggiormente approfondito. L’a. scrive che il nostro protagonista svolse i suoi incarichi senza mai aderire alla Nsdap. Ma durante il Terzo Reich Moellhausen non fu l’unico diplomatico a non essere iscritto al partito e a non mostrarsi fanatico sostenitore della politica del regime. Quale dunque il suo rapporto rispetto alla politica in generale e alla resistenza nazionalconservatrice in particolare? L’a. afferma che Moellhausen «pur non approvando il governo nazionalsocialista, che non aveva servito prima della guerra e non intendeva servire dopo, era deciso a rimanere fedele al suo Paese per tutta la durata del conflitto» (p. 96). Per certi aspetti si tratta di una ben nota immagine, rilevabile in numerose memorie di ex diplomatici italiani e tedeschi in servizio durante i rispettivi regimi, ovvero l’immagine del mondo diplomatico (o di una sua grossa fetta) come protagonista di un atteggiamento di sostanziale «resistenza passiva» nei confronti del regime. Uomini e istituzioni che appaiono coinvolti loro malgrado nei progetti espansionistici e nelle politiche criminali del regime di turno.
Filippo Triola
Matteo Brera, Novecento all’Indice. Gabriele d’Annunzio, i libri proibiti e i rapporti Stato-Chiesa all’ombra del Concordato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, XVIIII-366 pp., € 38,00
L’apertura dell’archivio della Congregazione per la dottrina della fede, nel gennaio 1998, ha inaugurato una ricca stagione di studi sulle carte del Sant’Uffizio e della Congregazione dell’Indice dei libri proibiti. Nonostante la maggior parte delle ricerche si siano concentrate sull’Inquisizione romana e, da un punto di vista cronologico, sull’età moderna, negli ormai vent’anni che ci separano dal 1998 non sono mancate le indagini sulla censura libraria ecclesiastica tra ’800 e ’900. A queste si aggiunge ora il libro di Matteo Brera, frutto di una ricerca di dottorato in Italian Studies conclusasi presso l’Università di Utrecht nel giugno 2014. Questo ha per oggetto le quattro condanne all’Indice dei libri proibiti inferte alle opere di Gabriele D’Annunzio dalla Congregazione dell’Indice prima e dal Sant’Uffizio poi tra il 1911 e il 1939.
Fino alla preparazione del Martyre de Saint Sébastien (1911), come sempre accuratamente coperta dalla stampa internazionale, la Congregazione dell’Indice ignorò completamente l’opera dannunziana, accontentandosi della condanna implicita che, secondo le norme canoniche, ricadeva su di essa così come su ogni opera oscena. L’imminente rappresentazione parigina del Saint Sébastien, in cui il ruolo del protagonista era stato per di più affidato «a una donna! Una ballerina! E una ballerina ebrea!», come denunciò, scandalizzata, la «Semaine catholique» (p. 87), alzò però il livello di pericolosità dell’opera dannunziana, almeno agli occhi della Congregazione dell’Indice, che in tempi insolitamente rapidi giunse alla condanna di tutte le prose amorose, di tutte le opere teatrali, e dell’antologia Prose scelte (1906 e 1909).
A diciassette anni di distanza, nel 1928, la condanna sarebbe stata estesa dal Sant’Uffizio (responsabile della censura libraria dopo la soppressione della Congregazione dell’Indice, nel 1917) all’opera omnia del «vate». Questo secondo procedimento fu innescato dalla decisione mussoliniana di premiare i meriti del «Poeta-soldato» nei confronti della «Nazione» (p. 154) con la fondazione di un istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le sue opere. Condotto sotto l’attenta regia di Pio XI, il processo si proponeva, come dimostra l’a., uno scopo «politico»: riaffermare, nel quadro delle trattative per i Patti Lateranensi, l’autorità suprema della Chiesa in campo morale. Negli anni ’30 due ulteriori condanne si abbatterono sulle ultime opere di D’Annunzio: Il Libro segreto (1935) e Solus ad solam (1939; pubblicato postumo).
Basato su un’analisi scrupolosa delle carte processuali relative alla ripetuta messa all’Indice del «vate», lo studio è arricchito dall’esame di altri procedimenti contro la letteratura «mistico-sensuale» aperti in quegli stessi anni, a partire da quello contro l’«ebreo» Guido da Verona – la sottolineatura, risalente al 1920, è del direttore della «Civiltà Cattolica», il padre gesuita Enrico Rosa, in questo caso nei panni del qualificatore esterno del Sant’Uffizio (p. 110).
Sante Lesti
Massimo Bucarelli, Luca Micheletta, Luciano Monzali, Luca Riccardi (a cura di), Italy and Tito’s Yugoslavia in the Age of International Détente, Brussels, Peter Lang, 413 pp., € 52,56
Il volume, curato da quattro docenti di relazioni internazionali in università del nostro paese, coinvolge storici italiani e di paesi ex jugoslavi (Serbia, Croazia, Slovenia e Montenegro). Esso presenta, con un’abbondanza di fonti inedite provenienti da numerosi archivi, tutti saggi in lingua inglese che ruotano intorno ai rapporti tra Italia e Jugoslavia, dalla stipula del Memorandum d’intesa di Londra (1954) alla chiusura della questione di Trieste, con la firma dei Trattati di Osimo del 1975. L’accordo non definitivo del 1954 creò le premesse per un avvicinamento tra i due paesi che tuttavia si concretizzò appena alla fine degli anni ’60, culminando con quella che i curatori chiamano la «Détente Adriatica», in riferimento al panorama internazionale in cui essa si inserì.
I contributi sono divisi in tre sezioni. Quella sul contesto internazionale pone al centro dell’analisi le prospettive e posizioni dei grandi attori esterni al piano adriatico, ossia di statunitensi (Laković), sovietici (Životić), francesi (Sretenović) e britannici (Bajc), e di altri due paesi geograficamente prossimi: Romania (Basciani) e Albania (Micheletta). Le altre due sezioni sulla dimensione bilaterale e sulle reazioni locali incrociano analisi sui rapporti incostanti tra Italia e Jugoslavia e sulle situazioni politiche in ambito locale e nazionale, essenzialmente italiano. Pupo e Dukovski propongono due sintesi dettagliate e di ampia durata sulla Questione di Trieste e sui rapporti tra i due paesi adriatici, mentre Škorjanec e specialmente Bucarelli e Mišić offrono ricostruzioni efficaci e puntuali sui vari e tortuosi passaggi che portarono alla firma del 1975.
Sono ben illustrati, in questi e in altri saggi del volume, i momenti e motivi della politica e della diplomazia italiane, osservati attraverso i cambi delle compagini governative, con approfondimenti su personaggi e partiti di governo e opposizione nazionale e locale. Monzali e Riccardi discutono nello specifico, ma non esclusivamente, delle posizioni e ruoli di Moro e di Fanfani; Karlsen dei comunisti italiani al confine e del loro leader Vidali; D’Amelio del ruolo dei Trattati di Osimo nell’evoluzione politica locale e dell’opposizione all’ipotizzata Zona franca industriale di confine; Capuano delle posizioni politiche contrarie alla Détente Adriatica da parte dell’associazionismo esule.
Minore nel complesso è l’attenzione alla Jugoslavia, che si presentava in maniera più compatta alle trattative, spinta, come osservano Mišić e Škorjanec, dall’intervento sovietico in Cecoslovacchia, ma che, come suggeriscono diversi autori senza approfondire, era pur divisa da disparità di vedute su decentramento, questioni nazionale ed economica. Alcuni autori si soffermano più sui problemi e altri più sui risultati del ravvicinamento adriatico, ma nel complesso condividono diversi punti, come le rigidità jugoslave nelle trattative e l’andamento ondivago da parte degli italiani, preoccupati delle opinioni pubbliche nazionale e locale.
Giovanni D’Alessio
Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Roma, Studium, 546 pp., € 23,00
Gioventù Studentesca (Gs), il movimento cattolico fondato da don Luigi Giussani nel 1954, non ha ancora ricevuto la giusta attenzione dalla storiografia. Hanno influito su questo ritardo diversi fattori: l’evoluzione di Gs in Comunione e Liberazione, dopo la tormentata stagione del postconcilio e del Sessantotto, ha indotto diversi studiosi ad appiattirne la storia sulla seconda organizzazione fondata da Giussani, col risultato che molti giudizi e interpretazioni sono stati estesi retroattivamente al movimento degli studenti nato a Milano nella seconda metà degli anni ’50. In secondo luogo, negli studi storici è spesso prevalsa la tendenza a sottovalutare o a trattare come una realtà a parte il mondo giovanile cattolico, sebbene non siano pochi i lavori che si sono susseguiti negli anni. La mancata sedimentazione di questa stagione di ricerche ha fatto sì che si riproponessero analisi e ricostruzioni spesso non ancorate a una solida base documentaria.
Il libro di Marta Busani colma questo vuoto ricostruendo, attraverso un’ampia e in parte inedita documentazione archivistica, la storia di Gs, tracciandone il profilo dal secondo dopoguerra fino all’esplosione della contestazione studentesca nella seconda metà degli anni ’60. La scelta di individuare la gestazione del movimento alla fine degli anni ’40, intrecciandola con il processo di formazione dell’Azione Cattolica nel nuovo contesto dell’Italia democratica, è di per sé indicativa dell’approccio innovativo che caratterizza il volume.
L’a. ricostruisce i modelli che ispirarono la nascita di Gs e con cui l’organizzazione di Giussani si confrontò negli anni ’50 e ’60: come, ad esempio, la Jeunesse étudiante chrétienne in Francia e in Belgio, influenzata dal pensiero e dalle opere del cardinale Joseph-Léon Cardijn e dalla nouvelle théologie di Henri de Lubac, Yves Congar e altri ancora. Sono tutti punti di riferimento molto lontani dal substrato integralista e antimoderno spesso attribuiti a Gs. Certamente la rilettura compiuta da Giussani della nuova teologia non era priva di accenti critici – come in passato era accaduto con l’interpretazione del modernismo – ma il tratto saliente di Gs fu la sua apertura alle innovazioni culturali e teologiche, specialmente quelle provenienti dalla stagione conciliare. L’a. torna su questo punto più di una volta dimostrando, attraverso la vicenda delle missioni organizzate da Gs in Brasile, la proiezione globale del movimento di Giussani, che costituì per molti aspetti un piccolo laboratorio dei fermenti e delle inquietudini che poi sfociarono nella protesta studentesca del Sessantotto.
Una riflessione più marcata sul modello di modernità al quale Gs aspirava avrebbe aiutato a comprendere meglio l’evoluzione del movimento di Giussani in Comunione e Liberazione, dopo un accidentato percorso in cui sembrano essere prevalsi i fattori di discontinuità piuttosto che quelli di continuità. Non è una mancanza del libro, al contrario è un auspicio suscitato dalla presentazione dei risultati di questa importante ricerca.
Guido Panvini
Alberto Buvoli, Andrea Zannini (a cura di), Estate-autunno 1944. La Zona libera partigiana del Friuli orientale, Bologna, il Mulino, 280 pp., € 23,00
L’estate 1944 è l’estate «partigiana», il momento di massima espansione militare, organizzativa e politica della Resistenza italiana. All’opposto, l’autunno ne costituisce la fase di riflusso dovuta a ragioni d’ordine strategico, alle mutate condizioni ambientali e all’azione nazifascista volta a riportare sotto controllo le retrovie del fronte italiano. Proprio tra l’estate e l’autunno 1944 nascono le cosiddette «Repubbliche partigiane» o «Zone libere», porzioni di territorio d’estensione variabile affrancate dal dominio nazifascista e amministrate dalle forze resistenziali. Malgrado il valore politico e propagandistico, le Repubbliche sono realtà destinate a scomparire una ad una di fronte alla repressione nazifascista.
Curato da Alberto Buvoli e Andrea Zannini, il volume raccoglie gli atti del convegno svoltosi tra Cividale e Tarcento nel settembre 2014 dal titolo La Zona libera del Friuli orientale. Il libro si avvale dell’Introduzione di Santo Peli e di un commento conclusivo di Paolo Pezzino, che inseriscono il caso della Zona libera del Friuli orientale nel più ampio quadro della genesi e dello sviluppo delle Repubbliche partigiane, nel contesto della campagna d’Italia e dell’occupazione nazifascista ma senza tralasciare le specificità di un’area, quella dell’Italia orientale, pesantemente segnata dalla guerra e dallo scontro nazionale e ideologico. L’eccidio di Porzûs non è così lontano e il libro fornisce le giuste coordinate per comprenderlo meglio. Il movimento partigiano locale vive la stessa tormentata gestazione della Resistenza italiana: dalle prime aggregazioni «spontanee» sorte all’indomani dell’8 settembre 1943 alle formazioni più strutturate e «politicizzate» della primavera-estate 1944, che danno vita alla Divisione Garibaldi-Osoppo, frutto della fusione tra la comunista Divisione Garibaldi-Natisone e la cattolico-azionista Brigata Osoppo. Tra il luglio e il settembre 1944, la divisione libera un territorio grande circa 70 km², tra Cividale e Tarcento, con 20 mila persone: la Zona libera del Friuli orientale, appunto, esperienza di autogoverno democratico presto affossata dalla reazione nazifascista.
Ognuno dei saggi contenuti nel volume ne approfondisce le vicende: dagli sviluppi della resistenza armata locale (Alberto Buvoli) ai rapporti con le missioni alleate (Massimo de Leonardis), dalla collaborazione con il movimento partigiano sloveno alle controversie ideologiche e nazionali che risultano alla fine fatali sia alla cooperazione tra i due movimenti sia alla stabilità del patto sottoscritto tra garibaldini e osovani (Nevenka Troha, Gorazd Bajc); e infine il «mutevole» atteggiamento delle popolazioni locali (Marino Qualizza, Flavio Fabbroni) non senza dimenticare il difficile ruolo ricoperto dai rappresentanti della Chiesa locale (Fabio Verardo).
L’appendice finale del volume dà invece spazio all’altro protagonista di quei mesi travagliati, le truppe d’occupazione nazifasciste. L’importanza strategica dell’area spinge i Comandi germanici ad una repressione violenta e brutale senza alcun riguardo per le comunità civili (Gian Carlo Bertuzzi).
Lorenzo Gardumi
Marco Callegari, L’industria del libro a Venezia durante la Restaurazione (1815-1848), Firenze, Leo Olschki, XVIII-288 pp., € 34,00
Gli ormai numerosi studi sull’industria del libro nei primi decenni dell’800 hanno posto in primo piano l’ascesa di Milano, e il suo divenire, a partire dagli anni della Repubblica Cisalpina (e poi soprattutto in quelli della Repubblica Italiana), un centro di attrazione per intellettuali di tutta Italia, che qui lavorano e stampano. Il conseguente sviluppo delle stamperie milanesi, non fermato dai successivi cambiamenti politici, ha tolto spazio, e visibilità, all’industria del libro fiorita a Venezia nel XVII e nel XVIII secolo, così che anche studi recenti dedicati alla storia, alla cultura, alle imprese della città hanno spesso dato per scontato il rapido (e irreversibile) declino dell’attività tipografica dopo la fine della Repubblica e negli anni difficili che ne sono seguiti.
La crisi dell’industria del libro a Venezia e la crescita di quella milanese sono dunque divenuti una specie di cliché storiografico, diffondendosi il quale si è studiata poco la reale situazione veneziana negli anni della Restaurazione. Le ricerche di Marco Callegari (che ha compulsato minuziosamente l’Archivio di Stato di Venezia in tutti i possibili fondi dove trovare documenti relativi alla stampa) cambiano il quadro, non per togliere a Milano il ruolo che la porterà a diventare la capitale dell’editoria italiana, ma per restituire a Venezia l’immagine di una città dove si continua a stampare, secondo i modelli settecenteschi ma anche con modelli editoriali nuovi.
Dopo la premessa di Mario Infelise, i capitoli del libro (i primi quattro dedicati alla produzione e ai suoi protagonisti, il quinto al commercio librario) si muovono dunque tra la constatazione della resistenza dei vecchi librai e stampatori, chiusi in un mercato spesso ristretto al solo ambito cittadino, e la dinamicità dei nuovi editori, che, dotati di proprie tipografie e non più vincolati a vendere i libri prodotti da altri e avuti come scambio dei propri, cercano di raggiungere mercati esterni a Venezia e al territorio veneto. L’importanza delle nuove attività è ben esemplificata, per esempio, nella storia di Girolamo Tasso, di Giuseppe Antonelli, della Tipografia di Alvisopoli (diretta da Bartolomeo Gamba, nello stesso tempo Direttore dell’Ufficio Centrale della Censura), della Tipografia del Gondoliere.
L’a. utilizza documenti inerenti le fasi di organizzazione e di produzione, delineando l’identità dei tipografi e dei librai e le modalità del loro lavoro, e, nello stesso tempo, dando conto di una Censura sempre pronta a intervenire, fin dalle richieste di aprire nuove imprese di stampa o di vendita. Va poi segnalato che lo studioso introduce un criterio metodologico innovativo (i cui risultati sono in numerose tabelle): il ricorso, come indice oggettivo di attività produttiva per «valutare l’effettiva dimensione dell’industria tipografica veneta» (p. 116), al computo del numero dei fogli stampati dai vari tipografi. Una proposta che arricchisce, in chiave metodologica, una ricerca già di per sé di grande interesse per i risultati raggiunti con gli scavi archivistici.
Alberto Cadioli
Alfredo Canavero, Daniela Saresella (a cura di), Cattolicesimo e laicità. Politica, cultura e fede nel secondo Novecento, Brescia, Morcelliana, 2015, 343 pp., € 25,00
La profonda trasformazione avvenuta in Italia negli ultimi decenni, con la globalizzazione e i flussi migratori che hanno arricchito il panorama nazionale di multiple opzioni religiose, offrono l’occasione per una ampia riflessione sul tema della laicità, in un quadro in cui si moltiplicano le analisi sulle interconnessioni tra le religioni e la storia dei popoli. L’interessante volume trae spunto dai contributi presentati in un convegno tenutosi il 19-20 settembre 2013 all’Università degli Studi di Milano su Cattolicesimo, laicità e politiche di laicizzazione, e può suddividersi in quattro ambiti di approfondimento.
Nel primo si riflette da un punto di vista filosofico (Franzini), storico (Giovagnoli) e teologico (Vergottini) sul tema della laicità prima e dopo il Concilio, osservando, tra l’altro, come la scomparsa della Dc abbia favorito l’indebolimento di quella dimensione nella politica (p. 30) determinando un successivo incrudimento del termine, associato impropriamente a quello di laicismo, in un orizzonte di ostilità verso la religione.
Nel secondo i contributi indagano con efficacia sia le modalità del confronto col tema in oggetto alle origini dello Stato unitario (Traniello) e nel lungo periodo di egemonia democristiana (Malgeri) sia come le altre culture politiche italiane – Pci (Orecchia), Psi (Punzo), Msi (Parlato), partiti minori del centro (Colombo) – si siano progressivamente rapportate al problema religioso nella loro azione concreta. Di particolare interesse l’ambito che approfondisce il caso di Milano, coi temi – tra gli altri – della laicità nel magistero di Montini (De Giorgi), della scelta religiosa e di quelle politiche nell’Ac diocesana (Vecchio), della questione dell’autonomia nelle Acli di Labor (Scirocco), delle frizioni generate dal progetto di Giussani (Saresella) fino al ruolo della Fondazione Lazzati (Canavero), evidenziando l’elaborazione riguardo al tema in oggetto di posizioni nettamente distinte, talvolta in aperto conflitto, che si sono poi protratte nel tempo.
Gli ultimi contributi mirano ad ampliare l’approccio a livello internazionale prendendo in esame la situazione di Stati Uniti (Mc Leod), Francia (Durand) e Germania (Liermann) contribuendo a far risaltare la peculiarità della situazione italiana. Nel complesso risulta un lavoro di grande utilità per l’approfondimento di una riflessione che è chiamata oggi a misurarsi con scenari nuovi in cui lo Stato (vedasi sentenza della Corte Costituzionale del 1989 richiamata a p. 7) è chiamato, coerentemente al principio di laicità ad atteggiamenti che escludano indifferenza e ostilità nei confronti dei contributi delle diverse esperienze religiose oggi presenti sul territorio nazionale, pretendendo al contempo dalle religioni l’assunzione di una serie di principi (uguaglianza, pluralismo, convivenza) necessari a garantire un equilibrato sviluppo del vivere civile. Per assumere tali principi l’arricchimento della prospettiva storica sul tema della laicità risulta essenziale al fine di evidenziare l’inconsistenza di una interpretazione ostile al fenomeno religioso.
Augusto D’Angelo
Cathie Carmichael, Bosnia e Erzegovina. Alba e tramonto del secolo breve, Trieste, Beit, 271 pp., € 20,00 (ed. or. Cambridge, Cambridge University Press, 2015, traduzione di Piero Budinich)
La storia contemporanea della Bosnia-Erzegovina prende le mosse dal 1875, quando scoppiarono in quella regione delle rivolte contadine cui fece seguito la grande crisi orientale che si concluse nel 1878 al tavolo del Congresso di Berlino. Fu allora che la Bosnia fu affidata all’amministrazione provvisoria (trenta anni) dell’Impero austro-ungarico, che ne avviò un primo e ampio processo di ammodernamento e sviluppo. Il periodo di dominazione asburgica (dal 1908 Vienna annesse la provincia sottraendola definitivamente al potere ottomano) è oggetto del secondo capitolo del volume di Cathie Carmichael, che condensa così i secoli precedenti in una gradevole sintesi (oggetto del primo capitolo). L’a. non ha compiuto una ricostruzione delle vicende politiche e amministrative della regione, che pure non mancano di essere menzionate nei loro momenti salienti, bensì ha voluto offrire al lettore un ricco insieme di spunti tematici e critici che spaziano dalla religione alla cucina, dalla lingua al folklore, dal cinema alla letteratura, dall’arte all’economia. Ne deriva un affresco composito della società e della cultura della Bosnia-Erzegovina nel corso dei secoli.
Il volume è la traduzione italiana di A Concise History of Bosnia. Il sottotitolo è una prerogativa di questa edizione e ne rispecchia bene il contenuto, ampiamente dedicato alle vicende novecentesche. Non poteva essere altrimenti. Del resto la Bosnia fu delimitata nei suoi confini proprio durante i lavori del Congresso di Berlino. Essi furono poi ripresi dopo la seconda guerra mondiale dai comunisti di Tito che elevarono quel territorio al rango di una delle sei Repubbliche che componevano la Jugoslavia. Sono queste, in estrema sintesi, le tappe principali che hanno condotto alla definizione dell’estensione dello Stato bosniaco in età contemporanea. Al periodo asburgico (1878-1918), l’.a. fa seguire la trattazione delle vicende della regione all’interno della Jugoslavia monarchica prima e, poi, dello Stato indipendente croato durante la seconda guerra mondiale. Agli anni del comunismo (1945-1990) e alla guerra a seguito dell’indipendenza del paese (1992) sono dedicati i capitoli seguenti. Il volume, dunque, adotta e propone una periodizzazione largamente diffusa e condivisa dalla storiografia specialistica.
L’a. ha voluto mettere in luce l’originalità della cultura bosniaca, fatta di influenze plurime e caratterizzata dalla capacità di mettere assieme e far convivere mondi diversi in una miscela unica che ha a lungo contraddistinto l’identità di quella regione e che, dopo le guerre degli anni ’90 e l’assetto scaturito dagli Accordi di Dayton del 1995, rischia di andare perduta in nome di una rigida separazione fra le etnie. Ciò è ben testimoniato dalla lettura che l’a. dà della guerra degli anni ’90, vista come «una delle strategie mirate a conquistare territorio più che un conflitto nato dalla reviviscenza degli “antichi odi”» (p. 190).
Antonio D’Alessandri
Maria Pia Casalena, Le italiane e la storia. Un percorso di genere nella cultura contemporanea, Milano-Torino, Bruno Mondadori, 245 pp., € 18,00
Casalena riprende, seguendo una dichiarata e compiuta analisi di genere, un suo tema: la produzione storica delle italiane. Le storiche sono infatti osservate in relazione agli storici e al contesto culturale e professionale del proprio tempo. In ogni capitolo si susseguono una presentazione della storiografia del periodo in esame, una disamina della produzione di uomini e donne e alcuni profili di storiche ritenute rappresentative. Il tutto corredato di tabelle relative alla storiografia prodotta da uomini e donne, agli scritti di donne pubblicati sulle riviste scientifiche e alla presenza femminile nelle università italiane.
L’a. propone un’«analisi la più completa possibile della produzione storiografica italiana del XIX e del XX secolo», provando a «ricomporre un panorama per molti aspetti sconosciuto, considerato spesso solo nelle sue manifestazioni di eccellenza, ricondotto forse troppo forzosamente a categorie analitiche rigide» (p. 15). In effetti il libro può essere letto sia come una rassegna assai dettagliata sia come un affresco ricco e composito, che mostra per quali vie «un laboratorio di idee, di metodi e di approcci», qual era la storiografia dell’età del Risorgimento, diviene una «scienza storica» nazionale con il suo corredo di istituti, scuole, riviste, «rivoluzioni» storiografiche e soggetti, sempre in dialogo con le correnti culturali e le istanze socio-politiche coeve, non solo italiane, nonché un campo di costante interazione fra gli storici e le storiche.
L’interesse delle donne per la storia è certo antico, ma nei decenni risorgimentali «non troviamo nel campo femminile molti equivalenti delle vette toccate dalla produzione maschile». Eppure, «se dalla storiografia “alta” ci spostiamo alla scrittura più generale della storia, allora le nostre autrici acquistano il loro spazio» (p. 29). Uno spazio che si allarga, anche se con lentezza e se assai variabili nel tempo risultano gli ambiti scelti dalle donne che aspirano a un riconoscimento da parte della comunità scientifica e accademica. Così dall’antichistica, dall’agiografia e dalla storia del Risorgimento le storiche passano, non sempre in accordo con gli orientamenti prevalenti fra gli storici, alla storia medievale e soprattutto moderna. Gli spazi nella storia contemporanea crescono solo dagli anni ’80, quando si registrano significative dinamiche all’interno della storiografia femminile come lo sviluppo della storia delle donne.
A lungo figure d’eccezione, le storiche sono aumentate di numero e la qualità dei loro lavori è cresciuta, ma spesso «sono chiamate ad occuparsi di una disciplina solo dopo la diserzione maschile» (p. 98). In sintesi, «persistenze e puntuali resistenze hanno rallentato l’ingresso e ancor più l’ascesa delle storiche in molti campi disciplinari» (p. 223). In particolare la struttura dei ruoli accademici rispetto al genere appare confermata e oggi per la maggior parte delle discipline ritroviamo «la medesima situazione del 1953: una presenza femminile a piramide, con una prevalenza di studiose nei ruoli più bassi e una forte maschilizzazione dell’ordinariato» (p. 220).
Tiziana Noce
Maria Casalini (a cura di), Donne e cinema. Immagini del femminile dal fascismo agli anni Settanta, Roma, Viella, 216 pp., € 26,00
Sei saggi (opera di cinque autrici e un autore: M. Casalini, C. Jandelli, V. Festinese, F. Tacchi, A. Scattigno e S. Gundle), preceduti da un’Introduzione della curatrice, mirano a dar conto della varietà di immagini e percezioni delle donne italiane nel corso di mezzo secolo. E lo fanno, utilizzando quella sorta di prisma naturale rappresentato dal cinema e dalla sua capacità di alterare, deviare, scomporre la realtà e le sue attrici.
Intrecciare le rispettive competenze – di chi, da anni, lavora sul tema e di chi, più di recente, ad esso si è accostato con impegno – per comprendere quale sia stata la rappresentazione delle donne sullo schermo, è dunque l’obiettivo meritevole di un testo che si dichiara metodologicamente originale in quanto «imperniato sulla sperimentazione di un approccio alla storia del cinema basato sulla pluralità delle fonti: primarie e secondarie, testuali e contestuali» (p. 10). Di fatto, il volume appare eterogeneo e come diviso tra due orientamenti non sempre dialoganti, tale da evidenziare sensibilità ma, soprattutto, metodi di lavoro e interrogativi diversi.
Al di là di ciò, nel lavoro si rintracciano molte informazioni. Il primato delle produzioni hollywoodiane nell’Italia autarchica degli anni ’30 assieme alla messa in luce dello scarto tra la donna mussoliniana e la sua rappresentazione; l’affermazione, nel dopoguerra, di un’immagine femminile sorprendentemente tradizionale a dispetto di un’apparente modernità del contesto; il progressivo tramonto, nella seconda metà degli anni ’50, della figura di «maggiorata» e l’emergere di una fisicità quasi eterea e, con essa, di un’Italia incamminata sulla via del benessere; la mancata sintonia tra l’Italia del «miracolo» e una filmografia che, oltre a restituire una realtà assai meno brillante e «miracolosa», trasmette forme di critica alla dissoluzione dei valori tradizionali; il rapporto, interessante e non scontato, tra lo schermo e il post68, periodo nel quale le pellicole paiono indugiare principalmente sul versante erotico quasi ad avviare/sancire la libera circolazione delle immagini di nudo; le tracce, nella filmografia degli anni ’70, di una doppia crisi: esistenziale e di coppia.
Al saggio di Tacchi, Prima della rivoluzione. Immagini del femminile nel cinema italiano dal miracolo alla crisi (pp. 109-147) – che attinge anche alle analisi e alle suggestioni di quella singolare giornalista e scrittrice che è stata Anna Garofalo – si deve l’esplorazione, selettiva ma riccamente fondata sul piano delle fonti e delle argomentazioni, della donna del «miracolo» e della crisi; un saggio, questo, che consegna ai lettori molti elementi di complessità e di riflessione. Percorso eccentrico ma stimolante è quello scandito da Scattigno, in Cinema e femminismo in Italia negli anni Settanta (pp. 173-205): quasi una sorta di lucida testimonianza del momento storico e delle sue antinomie. Attenta all’interazione tra cinema e pubblico, l’a. innesta la sua indagine sui cambiamenti in atto, sul protagonismo di studentesse e giovani donne e, più in generale, sulla relazione sfaccettata con il femminismo e con la sua critica.
Rosanna Scatamacchia
Maria G. Castello, Eleonora Belligni (a cura di), La fabbrica della storia. Fonti della storia e cultura di massa, Milano, FrancoAngeli, 224 pp., € 26,00
Che relazione c’è tra la disciplina storica e la sua circolazione attraverso la cultura di massa? Il volume intende rispondere a questa domanda. Già il fatto che le due curatrici, docenti di Storia romana e Storia moderna all’Università di Torino, non siano delle storiche contemporaneiste dovrebbe indurre a una riflessione sul mancato appuntamento tra storia culturale e storia contemporanea, tradizionalmente poco attenta alle connessioni con le fonti provenienti dalla cultura di massa. La «fabbrica della storia» cui si fa riferimento nel titolo è «quella che produce opere destinate a una fruizione più ampia» (p. 7): si tratta di quella cultura popolare che produce fonti troppo spesso neglette, o sovente considerate inattendibili dalla disciplina storica. Il cinema underground, la musica pop, i fumetti rappresentano, infatti, delle manifestazioni visibili attraverso cui la cultura storica di ogni epoca viene rimessa in circolazione.
Il volume, composto da sette saggi ciascuno su un caso di studio, procede nella direzione di una storia alternativa della storiografia, tesa a rintracciare l’utilità di una diversa attenzione nei confronti di fenomeni e metodologie quali la ricezione, la serializzazione, la divulgazione della storia attraverso la cultura popolare. A partire dalle intuizioni della scuola delle «Annales», i casi di studio non si limitano ad affrontare esempi di romanzo o cinema storico, ma offrono una riflessione sulle possibili fonti popolari per lo studio della circolazione della cultura storica. Particolarmente interessanti risultano i tentativi di indagare le forme con cui la storia occupa lo spazio pubblico attraverso prodotti a larga diffusione e le modalità con cui essa viene recepita dal pubblico e dalla critica ed entra a far parte degli immaginari.
Come già osservato da Michel Vovelle in Histoires figurales: des monstres médiévaux à Wonderwoman (1989), «est bien de constater que d’est en premier dans l’exploration de ce «temps plus long» de l’histoire des mentalités dans la longue durée que l’exploration du support iconographique s’est révélée précieuse» (p. 14). Sarà lo stesso storico francese a introdurre il concetto di «histoire figurale» come studio delle immagini ripetute e serializzate: quelle immagini nate in seno all’era della riproducibilità tecnica e artistica, riprodotte per decenni e giunte su supporti digitali a far parte degli immaginari contemporanei. Su questa scia, tra i casi analizzati vi è quello dei supereroi come veicolo politico nella «golden age» dei fumetti americani tra il 1938 e il 1945. Qui viene dimostrato come da strumento di propaganda politica governativa i fumetti diverranno veicolo di dissenso politico, intraprendendo un percorso seguito anche da cinema, televisione e cultura di massa.
Quella di cui si tratta è una cultura sfuggente, impossibile da ingabbiare, che si trasforma da strumento di potere a consumo popolare. Perché, come ci ha insegnato Vovelle, senza un pubblico nessuna immagine esiste, né tantomeno può influire su alcuna mentalità.
Damiano Garofalo
Johann Chapoutot, La legge del sangue. Pensare e agire da nazisti, Torino, Einaudi, 463 pp., € 32,00 (ed. or. Paris, Éditions Gallimard, 2014, traduzione di Valeria Zini)
Attraverso un campione di ben 1200 testi e 50 filmati apparsi nel Terzo Reich, Johann Chapoutot intende offrire un quadro quanto più ampio possibile dell’universo ideologico e normativo del nazionalsocialismo fondato su principi razzisti e biologici e ispirato, quindi, tout court, all’etica del sangue. L’a. articola l’analisi del suo vasto corpus di fonti intorno a tre fondamentali imperativi (da cui prendono il titolo le tre parti del libro) che avrebbero ispirato il pensiero e l’azione dei nazisti: «procreare», «combattere», «regnare» (forse più appropriato sarebbe stato usare nella traduzione italiana il termine «dominare»).
Nelle istanze eugenetiche, nella concezione della storia come eterna lotta tra razze e nella convinzione della missione dominatrice della razza germanica, in particolare nello «spazio vitale» a Est, Chapoutot individua i tratti distintivi della Weltanschauung socialdarwinista nazista, che intende ricostruire attraverso l’ampia mole di testi selezionati, indulgendo non di rado a un approccio propriamente descrittivo e partendo dall’assunto, non opportunamente argomentato, che «raramente […] l’adeguazione tra la parola e la cosa sarà stata portata così all’estremo come nel Terzo Reich» (p. 374).
Se, da una parte i moltissimi testi, spesso inediti, raccolti e presentati dall’a., risultano di grande interesse, tuttavia, d’altra parte, per lo più mancano una loro adeguata contestualizzazione e il riferimento ai loro spesso differenti ambiti di destinazione e diffusione, presupponendo un loro carattere forzatamente unitario. Né si dà opportunamente conto, se non con dei vaghi e rapidi accenni nella Conclusione, dei fili che legano il razzismo nazista a una cultura völkisch tedesca a partire dall’800 e a un vastissimo patrimonio «culturale» e scientifico, o meglio pseudoscientifico, europeo e occidentale. Seppure l’a. prenda le distanze da un’ingenua interpretazione intenzionalistica del Terzo Reich, tuttavia egli non offre un’opportuna analisi sistematica del rapporto complesso tra discorsi teorici e realtà di potere nella Germania nazista.
Nel mettere in risalto il carattere innovativo del suo studio, l’a. sostiene erroneamente uno scarso interesse storiografico per il discorso teorico del nazionalsocialismo (p. 18), smentito da una amplissima letteratura scientifica, di cui non vi è quasi traccia nella scarna bibliografia. Questa rappresenta in verità, soprattutto (ma non solo) nella parte riguardante gli studi critici, una vera nota dolente del volume: l’a. dà incredibilmente per scontata la conoscenza dei principali riferimenti bibliografici sull’ideologia, l’eugenetica, la politica razziale, le strategie imperialistiche e olocaustiche del nazionalsocialismo, dagli studi classici, come, a titolo esemplificativo, di Mosse, Poliakov, Hilberg, Hans Mommsen, Weindling, alle principali biografie su Hitler e sui gerarchi nazisti. Di non pochi studi critici citati non è riportata l’edizione italiana e la mancanza di un indice dei nomi non rende inoltre agevole un utilizzo critico del testo.
Andrea D’Onofrio
Philippe Chenaux, Paolo VI. Una biografia politica, Roma, Carocci, 337 pp., € 29,00
Il fiorire di studi su Giovanni Battista Montini-Paolo VI si arricchisce del lavoro di Philippe Chenaux. L’a., storico della Chiesa di origini svizzere, utilizza la vasta bibliografia disponibile e si avvale di nuova documentazione rinvenuta negli Archivi vaticani, in quelli diplomatici francesi e italiani e nelle carte di Giulio Andreotti e Vittorino Veronese; prende inoltre in esame le centinaia di testimonianze inedite contenute nella causa di beatificazione. Tutto ciò rende questa biografia, agile e accessibile anche a un pubblico di non specialisti, un’opera al contempo sintetica e innovativa.
Il viaggio che il lettore compie attraversa non solo il periodo del pontificato – al quale è dedicata la seconda parte del volume – ma l’intera parabola esistenziale di Montini, nella convinzione che «per chiunque desideri studiare la vita di Paolo VI è impossibile non tener conto delle “radici bresciane”» (p. 17). Montini era, del resto, uomo di «profonda italianità» (p. 14): non ha mai risieduto all’estero ad eccezione di un breve soggiorno nella nunziatura di Varsavia nel 1923, ma ha allacciato forti legami con la Francia e la sua cultura, esemplificati dall’ammirazione per Jacques Maritain e dalla lunga amicizia confidente con Jean Guitton.
La struttura della biografia segue un filo cronologico, ma i dieci capitoli delle due parti sono suddivisi in maniera tematica. Il sottotitolo può far pensare a un interesse privilegiato per gli aspetti più squisitamente «politici» dell’operato e del magistero di Montini, ma non sono trascurati quelli religiosi, spirituali ed ecclesiali, sia relativamente alla formazione, sia con riguardo all’opera pastorale dell’arcivescovo di Milano e del «timoniere del Vaticano II». Il volume dà risalto al lavoro di preparazione di una nuova classe dirigente per l’Italia postfascista, e all’antifascismo di Montini. Gli anni milanesi sono invece definiti il «grande laboratorio della riforma» (p. 263).
Del rapporto di Paolo VI con il Concilio l’a. approfondisce in particolare il dibattito sulla collegialità episcopale, le tensioni della terza sessione e la conclusione, per poi descrivere «I tempi delle riforme» (cap. 7): liturgica, della curia, del conclave, della sinodalità episcopale, i «grandi cantieri dell’episcopato» (p. 264). Il capitolo su «La crisi della Chiesa» illustra i momenti difficili del postConcilio, tra reazione tradizionalista e accelerazioni teologiche e dottrinali che avrebbero spinto Maritain a parlare, in Le Paysan de la Garonne, di «febbre neomodernista […] verso la quale il modernismo dei tempi di Pio X era solo un modesto raffreddore da fieno» (p. 190). Tante furono le prove innanzi alle quali Paolo VI «si pose come difensore intrepido dell’integrità della fede cattolica» (p. 264), dalle polemiche suscitate dal catechismo olandese alla fronda dei teologi, dalla crisi del sacerdozio al declino dell’Azione Cattolica, alle critiche pesanti seguite alla pubblicazione dell’enciclica Humanae Vitae. Ma ciò non impedì il dispiegamento di una politica del dialogo al servizio della pace, specie in Palestina e Vietnam, e della distensione con l’Est, con un forte ritorno del papato sulla scena internazionale.
Marco Impagliazzo
Sebastiano Marco Cicciò, Il porto di imbarco di Messina. L’ispettorato e i servizi di emigrazione (1904-1929), Milano, FrancoAngeli, 156 pp., € 21,00
La natura dei flussi commerciali e dei mutamenti strutturali che hanno interessato il porto di Messina nel tempo sono stati ampiamente indagati dalla storiografia. Minore attenzione, però, è stata dedicata alla sua inclusione, nel 1904, tra i porti di imbarco italiani per gli emigranti, e all’installazione dei relativi servizi previsti dalla legge n. 23 del 1901. L’istituzione dell’Ispettorato ha lasciato dietro di sé una consistente serie di dati concernenti i servizi offerti e il personale in esso impiegato, che hanno consentito all’a. di effettuare una ricostruzione puntuale e inedita dei flussi migratori del porto di imbarco di Messina e dei riferimenti legislativi organizzati in maniera sistematica e contenuti in un’Appendice statistica, di certa utilità.
Nel primo capitolo, l’a. ricostruisce i primi otto anni di vita dell’Ispettorato (1901-1908). La resistenza dei principali vettori a includere la città nei propri itinerari, giustificata da una consistenza delle partenze ritenuta non così significativa, non veniva meno nemmeno di fronte all’attivarsi in loco di una rete di assistenza e tutela agli emigranti tutto sommato efficace. Le ridotte ricadute finanziarie e commerciali scaturenti dall’inclusione di Messina tra i porti di imbarco tradivano le grandi aspettative del ceto dirigente locale e degli operatori del settore, che molto si erano battuti per la sua inclusione tra gli scali deputati all’emigrazione.
A seguire, l’a. individua nella cesura determinata dal terremoto del 1908, il ridimensionamento dell’«antica vocazione mercantile e marinara della borghesia locale» (p. 65), sebbene alcuni recenti studi abbiano dimostrato che già sul finire del XIX secolo nella città dello Stretto fosse in atto, seppur con delle eccezioni, il declino dei tradizionali settori commerciali, per effetto delle più complesse congiunture internazionali. Nel secondo capitolo, l’a. svolge dunque la sua analisi a partire dall’arresto forzato degli imbarchi determinato dal cataclisma, per giungere sino alla fine della prima guerra mondiale (1909-1919). In questi anni i flussi si comprimono, così come le attività e il personale dell’Ispettorato, sebbene la guerra conferisca al Commissariato generale dell’emigrazione più incombenze rispetto al passato per il rimpatrio dei connazionali dall’estero.
Nell’ultimo capitolo l’a. esamina gli anni tra il 1919 e il 1929, durante i quali le definitive trasformazioni del tessuto economico cittadino e la riduzione delle partenze si abbinavano all’obsolescenza del porto e dei suoi servizi, pur interessati da cospicui investimenti pubblici di ammodernamento: venendo «a mancare le ragioni per le quali il porto di Messina veniva dichiarato porto d’imbarco per emigranti» (p. 121) l’Ispettorato venne soppresso.
Nel complesso, il volume ha il pregio di proporre una riflessione che tiene conto delle dinamiche più generali, sulla base delle quali l’a., nelle conclusioni, evidenzia la terziarizzazione dell’economia cittadina, sebbene sotto tale profilo sarebbe stato più utile, probabilmente, estendere l’indagine al periodo relativo agli ultimi venti anni dell’800.
Francesca Frisone
Enzo Ciconte, Borbonici, patrioti e criminali. L’altra storia del Risorgimento, Roma, Salerno editrice, 174 pp., € 12,00
Il libro di Ciconte indaga le relazioni tra gruppi politici e organizzazioni criminali nell’età risorgimentale. Si inserisce in un filone di studi che, in tempi recenti, è stato scandagliato sia da importanti ricerche storiografiche (come l’importante lavoro di Franco Benigno, tra l’altro spesso citato dall’a.) che da numerosi libri di carattere narrativo e di impostazione evidentemente occasionale. L’a. colloca la sua prospettiva nella storia nel Mezzogiorno risorgimentale sostenendo che tanto nell’età borbonica, quanto nella crisi del 1860 e poi nella fase successiva di consolidamento dello Stato unitario, è sempre stata presente una solida relazione tra settori malavitosi e sistema politico.
La tesi è che i gruppi criminali erano funzionali ai disegni dei settori politici che hanno insistito sulle vicende meridionali, e a loro volta le organizzazioni malavitose ne sono state condizionate. Si tratta di una ipotesi su cui hanno lavorato anche altri studiosi, ma che da Ciconte viene largamente ampliata, per proporre una originale interpretazione del processo unitario. Per l’a., al centro di questa esperienza è l’intensa e violenta conflittualità che caratterizza il processo politico meridionale nei decenni tra l’età di Ferdinando II e la crisi di fine secolo. Lo scontro politico, il ripetersi di rivoluzioni, delle guerre e dei conflitti interni assegna un ruolo centrale alla violenza. A suo avviso, nel fondo, le dinamiche del conflitto nel Regno delle Due Sicilie e nell’Italia unita sono strettamente connesse a gruppi sociali meridionali, divisi. L’a. li divide secondo fasce tradizionali. Sono i grandi ceti proprietari, la borghesia emergente e i gruppi popolari a sviluppare diverse tipologie di azione armata.
La violenza marca la dialettica tra questi attori socio-economici e, secondo l’a., diventa occasione di apprendistato, oltre che di inserimento, per i gruppi criminali. Questi formano i loro capi e le loro élite in tale contesto. Sviluppano innovative forme operative ed evolute pratiche relazionali, capaci di accumulare ricchezze e districarsi anche nelle più complicate fratture politico-istituzionali del Mezzogiorno risorgimentale. L’a. ampia la propria tesi invertendo lo schema, e assegnando anche alla malavita la capacità di condizionare linguaggio e comportamenti della politica scegliendo, soprattutto nei casi di Palermo e di Napoli, alcune delle loro leadership più famose.
Il lavoro, che utilizza la bibliografia classica e quella più recente, oltre che alcuni scavi archivistici, si inserisce pertanto in questo filone di rilettura dell’unificazione nel Mezzogiorno, agganciandosi alle più calde novità del dibattito pubblico.
Carmine Pinto
Gianni Antonio Cisotto, L’orologiaio di Pesariis. Biografia politica di Fermo Solari, Prefazione di Franco Iacop, Milano, Biblion, 329 pp., € 25,00
A distanza di venticinque anni dalla discussa monografia di Nino Del Bianco (Edizioni Studio Tesi, 1991), il volume propone un nuovo profilo biografico di Fermo Solari (1900-1988), azionista friulano. Il testo è corredato da un’ampia Appendice documentaria, con riproduzione di lettere, discorsi, articoli e interventi pubblici. L’illustrazione dell’itinerario politico di Solari è affidata a un percorso diacronico, articolato in cinque momenti: gli anni della formazione; l’esperienza resistenziale; quella azionista; la fase socialista; il periodo postsocialista.
Nella prima parte non ci si limita alla giovinezza di Solari: se ne chiarisce, piuttosto, l’identità imprenditoriale e antifascista, costruita e difesa con tenacia sia negli anni del regime, sia in quelli della ricostruzione postbellica. La seconda parte fornisce un dettagliato panorama di notizie sulla militanza combattente di Solari, dall’autunno 1943 alla Liberazione: si dà visibilità alla fitta rete di relazioni che egli ha intessuto, diventandone uno dei protagonisti, nel PdA e nel contesto del Clnrv e del Cln. Oltre a ciò, si precisa la posizione assunta da Solari con riguardo ad alcuni temi specifici: i difficili rapporti tra le diverse anime delle brigate partigiane, in particolare con i cattolici all’interno della brigata Osoppo; le relazioni tra le formazioni garibaldine friulane e le forze titine; lo sforzo per l’unificazione di tutte le formazioni partigiane.
La terza parte del libro è in parte sovrapposta alla seconda: si tratta di un approfondimento della vocazione azionista di Solari, della sua vicinanza agli azionisti più autorevoli e della sua peculiare proposta di una nuova «economia socializzata», rappresentata come «terza via tra liberalismo e collettivismo» (p. 82). Dell’azionismo di Solari, inoltre, l’a. evidenzia l’insistente appello per l’unità delle forze democratiche del Cln e il tentativo di conciliare le esigenze della regia centrale del partito con le questioni più spiccatamente territoriali (di estrema importanza, specie sul confine slavo).
Il quarto e il quinto capitolo svolgono un pari approfondimento con riguardo, rispettivamente, all’affiliazione di Solari al Partito socialista (dal 1947 al 1966) e al successivo periodo di continuazione personale, per così dire, dell’impegno politico. Di queste due parti si segnala l’espressa intenzione dell’a. di restituire all’attenzione degli studiosi alcuni dei pilastri fondamentali dell’universo politico del biografato: la solidarietà con le iniziative volte a tenere unite le forze partigiane anche nel contesto repubblicano; il richiamo alla convergenza delle sinistre sulle grandi scelte; l’accento per il tema della moralità nella politica. Come già dimostrato nel testo sul Partito d’Azione nel Veneto (Viella, 2014), Cisotto si accredita per la capacità di condensare minuziosamente ed efficacemente informazioni e materiali assai utili. I documenti in appendice, specialmente, offrono testimonianza concreta di un pensiero ancora vivo e fanno molto riflettere sull’occasione perduta che l’azionismo tuttora rappresenta per la storia repubblicana.
Fulvio Cortese
Isabella Consolati, La prospettiva geografica. Spazio e politica in Germania tra il Giunti in Italia dopo pregresse esperienze maturate in altre parti dell’Europa occupata in veste di «liquidatori» di popolazioni cosiddette inferiori, la parabola politica di questi «signori del terrore» ci parla di una rapida ascesa, economica e sociale, in qualità di «specialisti» accuratamente selezionati per la realizzazione del progetto egemonico del Reich. Fanatismo ideologico e avidità di compiere una rapida carriera sono le componenti che più si evidenziano nel leggere le pagine dedicate a questi professionisti dell’intelligence nazista che, da Verona fino a Roma, ebbero il compito di eseguire deportazioni di massa, rastrellamenti, stragi di civili. Figure di primo piano dunque, che a guerra conclusa, pur riconosciuti colpevoli di crimini contro l’umanità, non scontarono, se non in minima parte, la pena prevista dai processi a loro carico. Crollato il regime, si reintegrarono nella Germania Federale da liberi cittadini, ripresero a lavorare, morirono con la fierezza di aver servito il proprio paese.

Elena Mazzini