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Il liceo classico – 1999

Adolfo Scotto di Luzio
il Mulino, Bologna

Anno di pubblicazione: 1999

Si dice a volte di un libro che colma una lacuna. Ma è più facile che, occupandola, ne segnali l’esistenza. È questo il pregio del volumetto di Scotto di Luzio, il quale ci fornisce molti argomenti per sollecitare una ricerca su una istituzione cardinale per la formazione dell’Italia contemporanea: una ricerca che racconti la battaglia ingaggiata dai liberali non solo per costruire un sistema scolastico (insegnanti, edifici, programmi…) ma anche per attirarvi le nuove generazioni e lì forgiarle. Nell’attesa, affidato a qualche buona lettura e a tante personali riflessioni, ecco invece un rapido excursus, che privilegia alcuni temi fondanti, ed anzi uno solo ricorrente – in maniera invero non proprio ordinata -: il ruolo che svolsero le lingue classiche, la letteratura e il purismo linguistico, nella costruzione della scuola della borghesia, un lemma, quest’ultimo, che l’a. usa un po’ alla buona, senza vera curiosità. Così ad esempio dopo aver saldamente collocato il decollo industriale negli anni ottanta dell’Ottocento (sic, p. 87), egli viene a ragionare del nesso che corre tra rigore classicista e meritocrazia, immaginando che “l’elemento capitalistico” si proponga “come nucleo originario di una ricomposizione del campo di appartenenza intorno ai valori del profitto” (?, p. 90). Lo stile del libro, concettuoso e spesso criptico – almeno per le mie capacità di lettore – qua e là sembra perfino parodiare le ricercate preziosità liceali di cui narra e di cui l’a. pare estremo epigono: cosicché, mentre la materia continuamente si “innerva” e si “coagula”, il lettore viene apprendendo che la tradizione classicista, pur alimentando negli scolari una “ricca vegetazione di pensieri” (p. 64) non li seppe però preparare al “caos percettivo prodotto dalle valanghe di ferro e di fuoco” e all’”inferno sensoriale di sibili” delle trincee (p. 99). E che non sarebbe stato poi capace, quel modello umanistico, di assicurare un riparo “dai rigori della meteorologia sociale” degli anni trenta (p. 167) fino a che l’”urticante esclusivismo sociale” (p. 171) del liceo gentiliano si sarebbe infranto sugli ideologismi dei decenni repubblicani. Inutile dire che del liceo classico l’a. sposa anche le gerarachie disciplinari, tutte orientate alle belle lettere: basti dire che egli nomina sì il “positivismo”, ma non dice una parola sulla sorte delle discipline matematiche e scientifiche, mentre con tante parole dedicate a Carducci e ai progetti d’una pedagogia laico-giacobina, non ne trova una per menzionare la cultura cattolica dopo l’Unità, nonostante che per tutto l’Ottocento ben la metà degli alunni frequentasse le scuole private. Laddove invece l’a. sente più sua la materia, egli è capace di ottime pennellate, come nella descrizione del passaggio tra aule liceali e trincee (cfr. pp. 108-109), o di quello tra carduccianesimo e primo dopoguerra (pp. 118-119), o ancora della differente torsione che il medesimo classicismo gentiliano avrebbe potuto subire col regime fascista e con il suo mediocre culto per la romanità.

Raffaele Romanelli