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Alberto Basciani, Roberto Ruspanti (a cura di) – La fine della Grande Ungheria. Fra rivoluzione e reazione (1918-1920) – 2010

Alberto Basciani, Roberto Ruspanti (a cura di)
Trieste, Beit, 256 pp., Euro 30,00

Anno di pubblicazione: 2010

Il volume, dal dichiarato intento multidisciplinare, curato da uno storico della politica, Basciani, e da uno storico della letteratura, Ruspanti, raccoglie i risultati di un convegno sui drammatici avvenimenti che sconvolsero l’Ungheria dopo la prima guerra mondiale. Secondo Pasquale Fornaro, nell’insuccesso della rivoluzionaria Repubblica dei consigli, nonostante l’entusiastico appoggio del mondo intellettuale e il sostegno iniziale di parte del mondo militare, e al di là degli indubbi gravi errori del governo di Bela Kun, giocò un ruolo fondamentale l’Intesa, impegnata a sostenere le pretese territoriali dei paesi confinanti l’Ungheria, sperati come argine nei confronti della Russia bolscevica. Questa tesi si collega a quella della storica ungherese Maria Ormos: la Repubblica democratica del conte Károlyi si trasformò nella Repubblica dei consigli proprio per sfuggire all’ostilità dei vicini e all’isolamento diplomatico, nella speranza di trovare sostegno nella Russia bolscevica. Ma l’aiuto da Est non venne e ne conseguirono non solo le note perdite territoriali, ma anche che «il potere si concentrò nelle mani della destra conservatrice e dell’estrema destra in via di formazione» (p. 51), responsabile di quell’antisemitismo lamentato nella poesia di Jozsef Kiss oggetto del saggio di Carla Corradi Musi. Una destra che si legittimava nella difesa della nazione, ma incerta nello scegliere tra la difesa degli interessi dei ceti possidenti e quella dei confini dell’Ungheria, come appare nei saggi di Gianluca Volpi sulla legione seclera e di Francesco Guida su di una ventilata federazione ungaro-romena. Fu forse questa remota possibilità federativa a frenare l’immediata adesione romena all’alleanza jugo-cecoslovacca di cui tratta Alberto Basciani? È un’ipotesi; di certo, l’ossessione di un ritorno aggressivo dell’Ungheria fu determinante nella formazione della Piccola intesa, uno strumento sproporzionato di difesa contro un piccolo Stato, ma inadatto a difendere i contraenti di quell’alleanza dal pericolo reale rappresentato dall’Italia e, in seguito, da Germania e Urss. Nati o ampliatisi con il crollo dell’Impero austro-ungarico, gli Stati della Piccola intesa e l’Ungheria dovevano fare i conti nella vita quotidiana con il passato plurisecolare, come mette in luce il saggio di Alessandro Gallo sulla rete ferroviaria ungherese: ben sviluppata in epoca prebellica, ma fortemente incentrata su Budapest, dopo Trianon risultò spezzata in rami ciechi e comunque inadatta a collegare la Grande Ungheria all’Europa Occidentale, quasi a controprova di quanto avvertiva il poeta Endre Ady, oggetto del saggio di Amedeo Di Francesco: l’Ungheria è sola e nell’oscillare millenario tra Est e Ovest pende inesorabilmente verso Est. Il dramma che si stava addensando sul paese avrebbe spinto altri intellettuali, come Marai o Kassák, oggetto degli studi di Bruno Ventavoli e Roberto Ruspanti, a un’adesione tanto entusiastica, quanto superficiale e confusa alla rivoluzione (?) del 1919. Da questo contesto di studi il saggio di Andrea Csillaghy sulla psicanalisi ungherese appare del tutto avulso.

Armando Pitassio