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I comunisti e la società italiana. Innovazione e crisi di una cultura politica (1956-1973) – 2003

Andrea Ragusa
Manduria-Bari-Roma, Lacaita, pp. 242, euro 15,00

Anno di pubblicazione: 2003

Si tratta di un saggio interpretativo sulla cultura politica comunista negli anni cruciali che vanno dal ?terribile 1956? fino alla strategia del ?compromesso storico? e all’inizio della grande crisi economica degli anni Settanta. Questo itinerario critico è basato su una fonte prevalente, e cioè gli interventi su «Rinascita», non senza qualche incursione nella carte del PCI. Il tentativo, come dichiara l’autore, è quello di superare l’autoreferenzialità degli studi sui partiti politici e, in particolare, le interpretazioni di quegli studiosi che alla cultura del PCI sono stati maggiormente legati. L’autore mette al centro della sua indagine le categorie di ideologia e di modernizzazione proprio come antidoti concettuali per evitare questo rischio. D’altronde è solo in una prospettiva che giudichi l’evoluzione politica dei comunisti italiani alla luce di prospettive analitiche che non nascano dalla storia politica-culturale stessa del Partito che è possibile dare ragione dei limiti così come dell’originalità della vicenda di un partito come il PCI in Italia.
Si tratta sicuramente di un testo di grande interesse nel quale sono enucleati alcuni dei dibattiti più rilevanti che attraversano la cultura comunista di quegli anni e il gruppo dirigente del Partito. Si mettono in luce i limiti dell’analisi del capitalismo italiano, le aporie e le contraddizioni della ?via italiana al socialismo?, l’arretratezza della concezione delle riforme di struttura, dello Stato e dei suoi apparati. Particolarmente interessanti sono le pagine relative agli anni tra il 1956 e il 1964 e quelle che analizzano il dibattito più specificamente ideologico, affrontato con particolare finezza critica alla luce della vicenda politica e culturale dell’Italia nel suo complesso. In questo quadro sono messe in evidenza le tensioni che derivano dal nesso tra la crescente autonomia del PCI e il suo richiamarsi invece a un internazionalismo che, soprattutto dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, si fa sempre più problematico. Quando, cioè, il problema del rapporto tra libertà e socialismo costringe gli intellettuali comunisti a una riflessione che non ha sbocchi pienamente compiuti.
Alla fine, però, Ragusa non sfugge, per alcuni versi, a quell’autoreferenzialità che è il suo obiettivo polemico. Dal momento che discutendo solo del dibattito dei massimi dirigenti e degli intellettuali di punta, perde di vista il Partito come parte della società italiana. Non affronta la complessità e la sempre maggiore articolazione di una macchina organizzativa sempre meno rigida e attraversata, soprattutto negli anni che seguono la morte di Togliatti, dai venti nuovi che soffiavano nella società italiana. In questo senso avrebbe giovato usare con più dovizia le fonti archivistiche (tra l’altro non è del tutto vero che per quegli anni ci siano degli insormontabili vincoli, come viene detto nella nota introduttiva) e un confronto con il dibattito storiografico degli ultimi anni che non è rimasto a quelle interpretazioni con cui prevalentemente si confronta Ragusa.

Ermanno Taviani