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Angelo D’Orsi – La cultura a Torino tra le due guerre – 2000

Angelo D’Orsi
Einaudi, Torino

Anno di pubblicazione: 2000

Libro lucido e amaro e autore che nulla fa per addolcirsi i rapporti con gli altri. Aprendo La cultura a Torino tra le due guerre Angelo D’Orsi mostra di aver coscienza di ciò che lo aspetta, la “rodente critica dei custodi della torinesità” (p. VII): i quali sono, fra gli altri, i suoi stessi personaggi o i figli e sodali dei suoi personaggi, le fonti scritte e orali di cui si è servito, i professori con cui ha studiato, i maestri in cui si riconosce, i colleghi con cui lavora all’Università. Non era facile, volendo dire “tutto”. E D’Orsi, per l’appunto, sembra darselo per insegna. Quello che l’autore non poteva immaginare – o non nelle proporzioni con cui si è manifestata – è la slavina di interventi con cui la stampa, e in particolare la stampa di destra con “Il Foglio” in testa, si è gettata sull’occasione offerta dal suo libro in chiave di discorso pubblico e di politica della memoria: e cioè per fare strame di una serie di bersagli e di simboli di ieri e di oggi, da Gobetti a Bobbio, dall’antifascismo torinese alla casa editrice Einaudi; e così, però, nel contempo, del carattere circostanziato della sua ricerca. Una ricerca di prima mano del più accreditato specialista del tema, negli archivi, sulle carte personali e nelle genealogie e reti di decine di professori, presidi, rettori, pubblicisti, artisti, organizzatori di cultura. L’Università – protagonista nel bene e nel male -, la stampa quotidiana, le riviste, l’editoria – altro punto di forza di Torino e di un libro sull’impresa culturale a Torino – , le istituzioni dell’alta cultura, i piccoli e grandi luoghi d’azione delle generazioni intellettuali che attraversano il fascismo: lo preparano, vi si immedesimano, vi si adattano, lo soffrono, lo combattono. L’autore trova ragioni di conferma al luogo comune che il fascismo, in particolare a Torino, sia in se stesso intellettualmente poca cosa; e però non conferma quell’altro luogo comune gratificante che ne induce allora l’afascismo, se non addirittura l’antifascismo di tutti gli altri. Il paesaggio che delinea è invece assai meno lusinghiero: esistono un’egemonia e un’accettazione diffusa, un rendersi compatibili ad essa. Qualcuno potrebbe trovare ispido l’approccio di D’Orsi, reclamarne maggiori dosi di pietas: per la condizione umana in tempi di dittatura, per i nostri stessi “maestri e maggiori”. Ma che fare se ci si trova a dover rimontare le autorappresentazioni correnti in uno dei loro luoghi generativi? Torino deve accontentarsi di uscire da questo libro – di fieri spiriti gobettiani, e dunque ben torinese – come una “nuova capitale culturale del Paese” (p. 358), ma del Paese così come è stato, promotore del fascismo o piegato al fascismo, e non tutto strenuamente votato al confino, al carcere, all’esilio, che pure fanno parte della sua storia più alta.

Mario Isnenghi