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Bruno Buozzi (1881-1944). Una storia operaia di lotte, conquiste e sacrifici

Gabriele Mammarella
prefazione di Susanna Camusso, Roma, Ediesse, 352 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2014

Buozzi, operaio socialista di umili origini, costretto a lasciare la scuola a undici anni
ma deciso ad acquisire competenze per conoscere il mestiere e la politica, fu ai vertici della
Fiom e Cgdl. Il suo percorso è stato fin qui un po’ appiattito, da un lato, sull’esilio a cui
fu costretto dalla fine del 1926, quando rifiutò l’autoscioglimento della Cgdl (accettato
nel 1927 da Rigola e D’Aragona, ma non da una Cgdl clandestina guidata in Italia da
Ravazzoli), rifondò a Parigi l’organizzazione (ne era stato l’ultimo segretario) facendola
aderire alla Concentrazione antifascista e riconoscere dalla Fsi di Amsterdam. Dall’altro
sul biennio 1943-1944 in cui, dopo la detenzione iniziata nel 1941 in Francia, con Di
Vittorio egli fu un protagonista delle trattative per la rinascita della Cgil in Italia.
Il contributo di Buozzi alle lotte operaie degli anni ’10 e ’20 non era stato affrontato
così a fondo dalla storiografia. L’ampio e documentato libro di Mammarella colma la
lacuna sebbene, per la fase dell’esilio, non offra materiale d’archivio reperito in Francia.
Buozzi, segretario della Fiom dal 1912, ancor prima di lottare contro i fascisti fu coinvolto
in violente dispute interne al mondo socialista, nel Psi come nel sindacato. Rifiutò le
posizioni dei massimalisti e dei sindacalisti rivoluzionari, senza però aderire alla linea di
una parte dei riformisti che, non solo secondo Buozzi, tendeva a rinunciare al socialismo
gradualista in cambio di accordi tra lavoratori e capitalisti frutto più delle concessioni
degli imprenditori che di una lotta di ampio respiro, finalizzata ad ampliare i diritti fondamentali
delle masse.
Fautore delle otto ore e dei Consigli di fabbrica (diversamente intesi da «L’Ordine
Nuovo» di Gramsci), Buozzi entrò in Parlamento nel 1920 vivendo con partecipazione
l’occupazione delle fabbriche, foriera di grandi speranze ma presto tradottasi in una sconfitta
per l’intero movimento operaio. Tra i fondatori del Psu, Buozzi fu candidato dal duce
a presiedere un ministero nel suo primo governo. Ma la strumentale offerta di Mussolini
(che tentò un altro abboccamento con Buozzi nel 1929 attraverso il fratello Antonio e
Villani), lungi dal costituire un mezzo di pacificazione tra i fascisti (unici aggressori) e
una sinistra sulla difensiva, indicò che la battaglia per la salvaguardia della legalità liberale
era persa. Ciò anche a causa del settarismo dei comunisti e dell’incapacità delle altre forze
antifasciste di esprimere una comune piattaforma politica dopo il delitto Matteotti, che
aprì la fase di massima debolezza del duce di fronte all’opinione pubblica.
Le divisioni interne alla sinistra proseguirono negli anni ’30. Buozzi, pur attaccato
da sinistra, di fronte al Patto Ribbentrop-Molotov e nel nome dell’unità sindacale, non
sostenne Faravelli ma tentò, dialogando con Nenni, di non recidere i legami con il Pcd’I
immaginando per l’Italia un sindacato nuovo e indipendente dai partiti. L’assassinio a «La
Storta» di Buozzi, dapprima rinchiuso in via Tasso, non si spiega con un complotto ma
con la violenza cieca che egli aveva sempre combattuto.

Andrea Ricciardi