Cerca

Charles Liblau – I Kapo di Auschwitz – 2007

Charles Liblau
Prefazione di Enzo Traverso, Edizione italiana a cura di Frediano Sessi, Torino,

Anno di pubblicazione: 2007

Nella memorialistica sui campi di sterminio questa testimonianza si distingue non solo per la personalità dell’a. – ebreo e militante comunista polacco, combattente in Spagna, resistente in Francia, dove fu arrestato e deportato ad Auschwitz, restandovi per tre anni e riuscendo a sopravvivere alle durissime condizioni di vita – ma anche per l’argomento, i kapo, cioè quei detenuti che venivano prescelti dai nazisti per gestire l’ordine nel campo, e investiti di un potere assoluto sugli altri detenuti. C’è il compagno comunista di Varsavia, ritrovato a Birkenau a comandare settecento prigionieri di una baracca, «con la testa rasata, gli occhi stravolti pieni di odio, la bava alla bocca, il viso sproporzionatamente allungato» (p. 9); il kapo Emile, un ladro «svaligiatore di gran classe», con un carattere «piuttosto mite», se confrontato con gli altri, e «senza pregiudizi razziali. Tutto per lui – tranne il furto e la morale ad esso collegata – era Scheiße (merda)» (p. 26); il kapo Ignatz, già membro di un comitato regionale comunista prima dell’ascesa di Hitler, che non era mai riuscito a fare carriera da libero: ci riuscì ad Auschwitz, diventando «il capo di tutti i capi», e mescolando «frammenti del programma comunista [a] slogan nazisti» (pp. 48-49). E così via, in una galleria di ritratti indimenticabili, che colpiscono dritti al cuore.Si tratta di esponenti di quella «zona grigia» sulla quale Primo Levi ha scritto pagine magistrali in I sommersi e i salvati: ci troviamo indubbiamente davanti a vittime dei nazisti, rese corresponsabili dell’annientamento dei loro compagni (ma anche del loro stesso, in termini di umanità schiacciata) dalla struttura organizzativa del campo, cioè da un aspetto essenziale del regime totalitario, ed Enzo Traverso, nella sua Prefazione, sottolinea che «il campo era concepito in modo che la violenza sembrasse l’opera dei detenuti stessi» (p. XV). D’altro canto, per salvarsi, alcune di queste persone andarono oltre un certo livello di compromissione (anche se stabilire quale fosse un «normale» livello di compromissione in quel contesto, è particolarmente arduo), manifestando istinti sadici e collaborando «volonterosamente», per parafrasare il titolo di un noto libro di Daniel J. Goldhagen (I volenterosi carnefici di Hitler. I Tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano, Mondadori, 1997), a portare a termine le finalità della struttura oppressiva nella quale esse stesse erano state inserite a forza. Dimostrando tutte le difficoltà di un giudizio, Primo Levi scriveva che avrebbe voluto «affidar[lo] soltanto a chi si è trovato in circostanze simili», e ammetteva di non conoscere «tribunale umano cui delegar[e] la misura [della colpa]»: ma scriveva anche che «la condizione di offeso non esclude la colpa e spesso questa è obbiettivamente grave». Leggendo la testimonianza di Liblau, si viene trascinati nel centro di questo dilemma morale, ma credo sia opportuno, per il lettore, ascoltare, sforzarsi di comprendere, ed astenersi da qualsiasi tentazione di giudicare le figure che Liblau ci descrive con tanto pathos.

Paolo Pezzino