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Christopher R. Browning – Lo storico e il testimone. Il campo di lavoro nazista di Starachowiche – 2011

Christopher R. Browning
Roma-Bari, Laterza, 408 pp., Euro 20,00 (ed. or. New York, 2010)

Anno di pubblicazione: 2011

In quest’ottimo libro Browning, uno tra i maggiori storici della Shoah, analizza una vicenda eccezionale: il destino dei lavoratori schiavi ebrei nel campo di lavoro nazista di Starachowiche (d’ora in poi S.) nel distretto di Radom, in Polonia, dove si produceva un terzo di tutte le munizioni necessarie alla fanteria tedesca e dove «il lavoro non era inteso come uno strumento per vessare in maniera ingiustificata gli ebrei, ma forniva un contributo essenziale allo sforzo bellico tedesco». Perciò a S. la «strategia ebraica di sopravvivenza attraverso il lavoro non fu completamente illusoria» (p. 185): la percentuale dei sopravvissuti fu infatti di gran lunga superiore alla media e anche molte donne e bambini riuscirono a sopravvivere, sia nel campo che dopo il trasferimento finale ad Auschwitz-Birkenau.Molte le cause di questo destino: l’élite ebraica seppe usare fin da subito la corruzione per inserire quanti più ebrei possibili nelle fabbriche di S.; il campo era vicino alla città di origine dei detenuti, che utilizzarono conoscenti polacchi per disporre di parte delle loro proprietà e corrompere i sorveglianti; i campi di Radom non furono mai incorporati nel sistema delle SS, ma rimasero sotto il controllo dei corruttibili direttori delle fabbriche sfuggendo alle liquidazioni decise da Himmler; inoltre nel trasferimento a Birkenau il convoglio da S. non subì la consueta selezione perché venne considerato un trasferimento di operai; infine sopravvisse un maggior numero di donne e bambini perché a Birkenau il regime in vigore nel campo femminile era meno rigido; in generale, gli ebrei provenienti da S. non vi arrivarono denutriti e avevano già una lunga esperienza del campo.Browning, però, scopre che la sopravvivenza non si spiega solo con una serie di concause fortunate, ma anche con l’iniziativa degli ebrei. Che a S. prese una forma non descrivibile come resistenza, piuttosto come «ingegno, ingegnosità, adattabilità, perseveranza e sopportazione» (p. 357) e si concretizzò nella capacità di corrompere tutti i membri della catena di comando. Naturalmente anche le vittime erano costrette ad operare nel mondo morale stravolto del campo dove si era salvati solo a scapito di qualcun’altro, e furono i parenti più stretti i destinatari degli sforzi per assicurare la salvezza.Si tratta di un eccezionale lavoro di microstoria, fondato su un uso sofisticato delle fonti orali, numerose e in molti casi uniche fonti disponibili. L’a. preferisce le informazioni provenienti da più testimoni e spesso ci sorprende l’acume con cui legge le possibili distorsioni della fonte: scopre che non sempre la testimonianza più antica è la più attendibile (solo dopo oltre mezzo secolo i sopravvissuti iniziano a raccontare l’uccisione, da parte di detenuti durante il trasporto a Birkenau, di un membro particolarmente odiato dell’élite ebraica a S.); oppure analizza gli «innesti» inconsci nella memoria dei sopravvissuti di elementi divenuti archetipici nella letteratura e soprattutto nella filmografia sulla Shoah. Così per esempio alcuni testimoni ricordano una selezione all’arrivo a Birkenau che in realtà non avvenne mai.

Giovanni Contini