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Claudia Gori – Crisalidi. Emancipazioniste liberali in età giolittiana – 2003

Claudia Gori
Milano, Franco Angeli, pp. 181, euro 17,00

Anno di pubblicazione: 2003

Fare storia del movimento delle donne implica la messa in discussione della separazione tradizionale tra sfera pubblica e sfera privata, tra esperienze politiche e dimensione intima: è questa la tesi interpretativa intorno alla quale ruota l’analisi di Claudia Gori del femminismo liberale primonovecentesco. Il giudizio critico espresso dalla storiografia ? in particolare da Franca Pieroni Bortolotti della quale Gori è comunque debitrice ? sulla crisi regressiva del movimento femminista in età giolittiana, ?giudicato troppo moderato e lontano dalle prime battaglie per l’emancipazione? (p. 12), viene qui ridiscusso proprio attraverso la lente di una documentazione soprattutto privata, dalla quale emergerebbe che se una crisi si ebbe, questa fu il prodotto di una salutare estensione delle tematiche femministe, di un arricchimento, dunque, benché venato da contraddizioni.
Al centro dell’indagine è l’esperienza del composito gruppo di aristocratiche che nel 1903 diede vita al Consiglio nazionale delle donne italiane (filiazione dell’International Council of Women statunitense). Pur riconoscendo la prudenza dell’approccio politico del Consiglio, che non si espresse mai in favore dell’estensione del suffragio e perseguì il miglioramento della condizione femminile in chiave di ?controllo sociale? (p. 16), Gori sostiene che le sue iniziative debbano essere parimenti iscritte nella migliore tradizione emancipazionista, perché condotte da donne e rivolte solo alle donne e perché implicitamente tese a ridefinire i criteri della cittadinanza e finanche un moderno sistema di welfare. La moderazione delle animatrici del Consiglio dovrebbe poi essere vista quale effetto della difficile conciliazione tra la radicalità della critica ai ?meccanismi di oppressione sessuale? (p. 41) e la rivendicazione del diritto di accesso alla sfera pubblica che, dovendo superare le resistenze sperimentate sin dentro le mura domestiche, cercava legittimazione nell’appello alla capacità e responsabilità di ognuna: ?impostando la lotta politica nei termini della conciliazione, evitando di riconoscere i motivi di scontro frontale, le liberali speravano di ottenere l’ingresso delle donne nello Stato, sulla base di un’attestazione di competenze acquisite? (p. 48). Da qui anche il rapporto con la patria e la guerra europea: disconoscere i superiori interessi nazionali avrebbe significato condannarsi a rimanere ai margini delle istituzioni.
E tuttavia, se l’analisi del pur esiguo interventismo femminile, elitario e sprezzante verso il proprio sesso, dimostra quanta distanza intercorresse tra quest’ultimo e il movimento delle donne del secolo precedente, anche la riflessione sul più ampio emancipazionismo liberale avrebbe dovuto insistere maggiormente sulla frattura verificatasi nel suo seno con le radici teoriche del femminismo ? animato dalla critica a tutte le discriminazioni operanti nella società: di sesso, di classe e di razza ? e, quindi, sul nesso tra questa frattura e quella che Gori è costretta a chiamare l’?ingenuità? (p. 174) delle liberali che prestarono il fianco a un nazionalismo pronto a escludere non solo le donne dalla gestione politica dello Stato.

Catia Papa