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Clelia Bartoli – La teoria della subalternità e il caso dei dalit in India – 2008

Clelia Bartoli
Soveria Mannelli, Rubbettino, 278 pp., euro 14,00

Anno di pubblicazione: 2008

Quello di dalit è un termine che si è diffuso largamente nel lessico politico indiano a partire da una trentina d’anni a questa parte. Esso denota, spesso con forte carica rivendicativa e militante, quella parte della popolazione del subcontinente (gli intoccabili e i tribali, ma non solo loro) che, variamente penalizzata da forme di discriminazione sociale alimentate dalla sopravvivenza di consuetudini castali, si è tuttavia vista schiudere dalla Costituzione del 1950 la possibilità di fruire di compensazioni istituzionali quali «la riserva di quote di rappresentanza politica e la riserva di posti negli incarichi pubblici» o quali, ancora «agevolazioni nel campo dell’istruzione» (p. 126).Il volume di Clelia Bartoli, elaborazione di una tesi di dottorato in «Diritti dell’uomo» discussa presso la Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, affronta il tema a partire da un interesse soprattutto giuridico e sociologico, ma ha indubbiamente molto di interessante da raccontare anche dal punto di vista storico e storiografico. Da un lato, infatti, si confronta perspicuamente e senza timori reverenziali con le teorie della subalternità che hanno ispirato nei decenni passati molta della storiografia post-coloniale, a partire dalle elaborazioni del collettivo indo-americano di Subaltern studies; dall’altro illustra puntualmente sotto il profilo fattuale una vicenda, l’avvio della cui fase moderna l’a. individua nelle politiche di decifrazione e classificazione della società indiana promosse a partire dagli anni ’70 dell’800 dai censimenti coloniali britannici.Muovendosi con equilibrio tra chi ha teorizzato un’immanenza del sistema delle caste alla civiltà induista (Louis Dumont) e chi, in stagioni più recenti, ne ha viceversa enfatizzato l’irrigidimento in epoca coloniale (Ronald Inden) o denunziato addirittura l’artificiosità, considerandolo l’esito inevitabile dell’applicazione dei criteri della statistica occidentale a una società dai confini in precedenza fluidi (N.B. Dirks), l’a. ricostruisce un secolo e più di storia del subcontinente, evidenziando le ambivalenze di una politica «talvolta sorprendentemente coraggiosa nel prendere le distanze da certi aspetti della propria tradizione», ma al tempo stesso restia a «superare una epistemologia della divisione sociale basata sulla casta, sebbene volta al perseguimento di ideali democratici e progressisti» (p. 203). Immaginare forme di risarcimento istituzionale per i dalit (oggi intorno al 16% della popolazione del paese) significa infatti sì contrastare «la concezione in egualitaria delle caste», ma anche al tempo stesso riconfermarne l’esistenza (p. 159), e contribuire, dunque, paradossalmente, a rendere redditizie quelle forme di identificazione a base religiosa, etnica o territoriale, il riconoscimento giuridico della cui eccezionalità osta a una declinazione formalmente egualitaria del principio di cittadinanza nel subcontinente. Ci si trova, insomma, davanti ad aporie, che è merito di questo studio sviscerare in tutta la loro pregnanza.

Marco Meriggi