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Costruire la democrazia. Umberto Zanotti Bianco tra meridionalismo ed europeismo

Mirko Grasso
postfazione di Salvatore Settis, Roma, Donzelli, 154 pp., € 25

Anno di pubblicazione: 2015

Il volume affronta una questione molto interessante e mai analizzata in maniera organica
dalla storiografia, che pure ha più volte tracciato la biografia di Umberto Zanotti
Bianco. Si tratta del rapporto tra l’azione «democratica» e umanitaria promossa dall’archeologo
anglo-piemontese nel Mezzogiorno «attraverso moderni progetti di riforma» (p.
4) in campo educativo, sociale e sanitario, e la sua proiezione internazionale legata alla
rinascita civile delle nazionalità «oppresse» dagli imperi multinazionali.
Da un lato, il volume riesce esaustivamente a individuare le matrici ideologiche del
rigoroso volontarismo di Zanotti – mazzinianesimo, modernismo, influenze fogazzariane,
riformismo rurale britannico, ecc. – sottolineandone il valore civile e l’attualità. Dall’altro,
alcuni nodi problematici del suo meridionalismo – sia interno che internazionale,
quest’ultimo aspetto comunque puntualmente rintracciato nelle fonti – restano irrisolti.
Uno spunto di riflessione può provenire dalla postfazione di Salvatore Settis, che
annoda sapientemente i fili del complesso profilo di Zanotti Bianco, e che acutamente individua
un trait d’union tra la sua missione di soccorso nella Messina annientata dal terremoto
del 1908 e la successiva azione umanitaria (1910) in un contesto non direttamente
sconvolto dal sisma, come l’Aspromonte, ma ugualmente quasi azzerato, da una miseria
endemica e annosa, nelle sue funzioni sociali, civili e sanitarie (p. 134). Ma a «quale» Sud
si rivolgeva il progetto di «costruzione della democrazia» di Zanotti-Bianco? Quale la
relazione tra «il» Mezzogiorno «immaginato» dall’intellettuale mazziniano e l’eterogenea
realtà meridionale? L’Aspromonte sembra corrispondere all’idealtipo di un Mezzogiorno
«primordiale» in cui calare l’azione umanitaria e assistenziale – educativa, sanitaria, sociale
– solitamente riservata a situazioni emergenziali postcatastrofiche. Tuttavia, i remoti
villaggi del reggino – come anche contesti analoghi in Basilicata – non rappresentavano
«tutto il Sud», ma una loro versione estremizzata sia rispetto alle città che alle zone agricole
più fiorenti, in cui convivevano arretratezza e sacche di modernizzazione.
Analogamente, l’azione «internazionale» di Zanotti può essere letta non solo come
una mera opera di promozione della causa delle nazioni oppresse, ma anche come progetto
di «costruzione» culturale-identitaria, corrispondente alla «fase B» di Hroch. Nel caso
albanese, ad esempio, in assenza di una lingua nazionale standardizzata, nel 1912 Zanotti
commissiona all’abbazia di Grottaferrata – il maggiore centro culturale di lingua arbëreshë
– del materiale didattico per «risvegliare e cementare sempre più» (p. 65) la nascente
nazione balcanica. Tentativi di «inventare» la nazione albanese dall’Arbëria erano stati
fatti nel XIX secolo, nel quadro del nazionalismo risorgimentale: Zanotti, insistendo nel
leggere il nazionalismo del primo ’900 con le lenti del mazzinianesimo «umanitario» del
secolo precedente, relegò il suo meridionalismo internazionalista alla sfera utopica più che
a quella di un vero e proprio progetto politic

 Giovanni Cristina