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David Cook – Storia del Jihad, da Maometto ai giorni nostri – 2007

David Cook
Torino, Einaudi, XXII-270 pp., Euro 19,00 (ed. or. Berkeley, 2005)

Anno di pubblicazione: 2007

Cook, studioso statunitense autore di ricerche sulla tradizione apocalittica islamica, analizza in questo saggio l’evoluzione storica della nozione di jihâd, dall’epoca di Muhammad (VII sec. d.C.), fino alle recentissime «operazioni martirio», ossia gli attentati suicidi, attraverso la letteratura classica (Corano, tradizioni profetiche e trattati teologici) e moderna, quest’ultima estesa a comprendere i proclami televisivi di al-Qâ?ida e quelli dei gruppi islamici radicali diffusi in rete. Pur essendo, come gran parte della saggistica di tema mediorientale, un libro a tesi, dettato dall’attualità e dall’agenda politica dell’a. (vicino al neo-conservatore Middle East Forum di David Pipes), l’ampiezza del suo scopo e l’uso ampio, benché strumentale, di fonti arabe lo distinguono dai discorsi correnti sul jihâd. Il quesito centrale è, evidentemente, valutare se l’islam sia di per sé una fede aggressiva che prescrive la guerra, di conquista o religiosa; più precisamente, se sia vero che il jihâd ha subito un’evoluzione definitiva verso un significato pacifico (il j. come sforzo di auto-miglioramento morale e intellettuale) o se il suo nucleo semantico principale abbia mantenuto invariato il senso, già protoislamico, di obbligo di condurre la guerra ai nemici dell’islam. La risposta di Cook su quest’ultimo punto è netta e contrasta con gran parte dell’islamologia occidentale contemporanea, attestata su posizioni qui definite, polemicamente, «ireniche». Sebbene al concetto di jihâd come «guerra per la causa di Dio» si sia affiancato piuttosto presto (dal IX sec. circa) il suo uso metaforico di lotta alle cattive inclinazioni individuali; sebbene, anzi, presso una parte dei pensatori musulmani, questo secondo significato designi il «grande jihâd» e il primo la sua forma inferiore – il «piccolo jihâd» – limitato nell’uso e nel tempo, tale evoluzione è rimasta, per Cook, confinata all’interno del quietismo sunnita. L’ideale di jihâd violento, mutuato dall’archetipo storico delle prime conquiste islamiche dove l’espansione territoriale si lega all’affermazione della nuova fede, ha invece avuto una diffusione ininterrotta nel tempo e, all’interno delle diverse correnti islamiche, ha dominato in particolare sia il pensiero radicale che lo spirito dell’islam sufi, ossia mistico. Il suo rinnovamento ha così ispirato la spinta bellicosa in atto nei movimenti mistici che, fra XVII e XIX secolo, dettero vita agli ultimi sussulti dell’espansione musulmana in Africa e nel subcontinente indiano, e nell’islamismo riformista e anti-mistico del XX e XXI secolo. Nei due casi, il jihâd si è imposto tanto come reazione al pericolo esterno incombente sulla comunità musulmana e come strumento della sua vittoria, che, al suo interno, come lotta purificatrice contro la degenerazione degli intenti e dei costumi dei credenti. L’ideale di lotta violenta, volta a compiere un mandato divino di dominio sul mondo, appare dunque non il modo inevitabile di affermazione delle società islamiche nella storia, bensì un riflesso condizionato, che sorge in specifiche condizioni storico-politiche e all’interno di contesti ideologici d’ispirazione messianica o apocalittica.

Bruna Soravia