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Emilio Gin – Sanfedisti, carbonari, magistrati del re. Il Regno delle Due Sicilie tra Restaurazione e rivoluzione – 2003

Emilio Gin
Napoli, Dante & Descartes, pp. 200, euro 15,00

Anno di pubblicazione: 2003

Il titolo risponde al vero ed esprime in certa misura, non saprei dire se in modo consapevole o no, l’impasse in cui finisce col trovarsi la ricostruzione dell’autore, il quale, come esplicita il sottotitolo, intende analizzare le condizioni politiche del Regno tra la seconda Restaurazione borbonica e la rivoluzione del 1820. Infatti i tre soggetti presi in esame e ai quali l’autore dedica i tre capitoli centrali della sua ricerca, costituiscono le dramatis personae che determinano il giuoco delle parti e il fallimento della politica dell’amalgama, dove i calderari sono gli eredi non in linea di successione diretta, ma mediata, della componente sanfedista, o forse meglio ormai inanemente legittimista, proprio nella misura in cui la dinastia ha perso la base di massa dei lazzari e delle masse contadine, ragion per cui essa non riesce a far argine al carbonarismo. A sua volta questo è l’espressione di una lunga opposizione della società civile che origina nel decennio francese, pur così fervido di innovazioni, e che ha il suo punto di forza nell’assecondare, rispetto alla prospettiva della monarchia amministrativa, la crescita d’una opposizione modernizzatrice insediata nella dimensione provinciale, e il suo punto di debolezza dal punto di vista della direzione rivoluzionaria nella sua incapacità di coordinare il governo della rivoluzione. Tutto ciò come componenti politiche e sociali che mettono in crisi il progetto dell’amalgama, la politica del De’ Medici e del Tommasi, cui si contrappone quella del Canosa, l’animatore del progetto calderaro, la cui sconfitta tuttavia non salva dal fallimento i suoi avversari. Né poteva essere altrimenti se la politica dell’amalgama viene ridotta ad una contabilità in equilibrio tra le componenti legittimista e filomurattiana nella gestione della cosa pubblica (capitolo V), e verificata in un delicato settore dell’apparato quale è quello della magistratura e dei giudici di pace in particolare, lo strumento che, secondo la visione attribuita ai due esponenti dell’amalgama, doveva consentire un rapporto più efficace tra paese reale e paese legale e un più rapido esercizio della giurisdizione, il tutto nella prospettiva dell’affermazione della terzietà, o dell’autonomia dello Stato nei confronti delle parti in conflitto. La ricostruzione dunque della sconfitta di una simile prospettiva, che in realtà più intimamente si lega allo svolgersi delle dinamiche internazionali, come pure in qualche punto viene messo in risalto, e all’ormai definitiva perdita di qualunque capacità di iniziativa della Monarchia sia verso il paese che verso le classi medie, per le quali essa resta tuttavia inaffidabile e al di sotto delle aspettative di riforma che pur esse nutrono, appare un problema più complesso di quanto l’autore, in una diligente ricostruzione delle forze in conflitto, non riesca a farci percepire e a mettere in luce, anche in una sostanziale conferma di elementi di giudizio noti, rispetto ai quali non paiono rilevanti gli apporti innovativi.

Sergio La Salvia