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Emmanuel Betta – Animare la vita. Disciplina della nascita tra medicina e morale nell’Ottocento – 2006

Emmanuel Betta
Bologna, il Mulino, 367 pp., euro 28,00

Anno di pubblicazione: 2006

Questa importante e innovativa ricerca porta luce sul contesto di origine della crociata antiaborista della Chiesa cattolica, che tanto peso ha nel nostro presente. Se posizioni più o meno lassiste o rigoriste sull’aborto si erano alternate nella storia della Chiesa, la svolta decisiva avvenne a fine ‘800, con la decisione del S. Uffizio di vietare l’aborto terapeutico. Fra 1884 e 1901 il S. Uffizio emanò sei sentenze vietanti ogni intervento medico che mettesse in pericolo la vita del concepito. Betta ricostruisce il contesto di queste sentenze, interpretandole come reazione della Chiesa alla nuova egemonia morale della medicina. L’aborto terapeutico si era sviluppato nell’800 in alternativa al parto cesareo, che comportava un’altissima mortalità tanto della madre che del feto. Nel ‘700 il cesareo era stato praticato nei paesi cattolici al fine di battezzare il bambino. La vita terrena della donna veniva sacrificata al valore superiore della vita eterna del feto. Ma nell’800 il battesimo intrauterino era considerato valido, e i medici potevano salvare la donna attraverso l’interruzione di gravidanza. Ora la scelta era fra due vite terrene. Per i medici, che cominciano a usare statistica e calcolo delle probabilità nella decisione terapeutica, l’opzione è per chi dei due ha più possibilità di sopravvivere autonomamente, cioè la donna.Betta sfata la tesi avanzata da certa storiografia femminista, secondo cui l’ostetricia fra ‘700 e ‘800 avrebbe privilegiato la sopravvivenza del feto. Al contrario, ampia parte degli ostetrici si schierò a favore della donna, anche nei paesi cattolici. Ma anche vari teologi interpellati dal S. Uffizio propendevano per la donna, per ragioni avanzate nella tradizione casuistica già nel ‘600 (in particolare, la teoria della legittima difesa: il feto poteva essere considerato un aggressore minacciante la vita della donna). Nonostante questo, il S. Uffizio decise in senso opposto, condannando l’applicabilità della teoria della legittima difesa, anche nel caso della gravidanza extrauterina. L’autore sottolinea che questa intransigenza non rifletteva affatto una unanimità di vedute dei teologi cattolici, ma piuttosto l’egemonia assunta in questo periodo dalle posizioni neo-tomiste.Allargando lo sguardo oltre la puntuale ricostruzione di Betta, altri fattori di questa svolta rigorista possono essere visti nella rigidità di un’istituzione che si arroccava sempre più su posizioni di legittimazione autoreferenziale (il dogma dell’infallibilità pontificia) sentendosi minacciata dall’affermarsi di una nuova biologia, l’evoluzionismo darwiniano, radicalmente incompatibile con la concezione della natura come disegno di Dio. Questa rigidità era destinata a durare nel tempo. Una vicenda simile a quella descritta da Betta si è ripetuta nel caso della contraccezione con l’enciclica Humanae Vitae (1968). Nonostante la commissione consultoria, formata di laici e religiosi, avesse votato a larga maggioranza perché la Chiesa rivedesse la sua condanna della contraccezione, Paolo VI ribadì il divieto, includendovi la pillola anticoncezionale. Ogni futura ricerca sulla storia della bioetica, e del complesso rapporto fra medicina e religione dall’800 al presente, dovrà tenere conto del libro di Betta.

Gianna Pomata