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Fabio Vander – Livorno 1921. Come e perché nasce un partito, – 2008

Fabio Vander
Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 149 pp., euro 12,00

Anno di pubblicazione: 2008

«Non è questo un libro di storia», dichiara l’a. con onestà intellettuale in apertura di una breve ma stimolante riflessione sulla genesi del Partito comunista d’Italia. Si tratta tutt’al più di una «storia politica» in cui «l’aggettivo ha la stessa forza semantica del sostantivo» (p. 7), poiché si pone l’analisi storica al servizio di un’idea essenzialmente politica: nella storia della sinistra italiana «Livorno è attuale, Salerno esiziale» (p. 14); ossia nell’atto di nascita del Pcd’Ici sarebbero ragioni tuttora valide, mentre la «svolta» del 1944 sarebbe l’ennesima manifestazione di una tendenza al compromesso, al trasformismo, al consociativismo, che avrebbe perennemente bloccato la maturazione della democrazia italiana.Per quel che concerne la ricostruzione storica, la tesi di fondo è così riassumibile: la nascita del Pcd’Inel 1921 non ebbe natura esogena, non fu dettata dalla fascinazione per il mito rivoluzionario bolscevico né dalla soverchiante influenza di Mosca, bensì rispose a motivazioni essenzialmente endogene. Il vero movente consisteva infatti nella volontà di inaugurare un progetto politico nazionale (la costruzione di un partito capace di assumere in modo autonomo funzioni di governo) che muoveva da una precisa critica al sistema politico italiano e al ruolo subalterno in esso giocato dai rappresentanti del movimento operaio. Da questa critica, e non da un cieco impeto rivoluzionario, derivava il rifiuto comunista di tutta la tradizione del socialismo italiano, accusato da Gramsci e compagni di essere tra i principali responsabili di una «aporia della democratizzazione», ovvero della mancata assunzione da parte del movimento operaio di una propria cultura dirigente, alternativa all’imperante prassi trasformista. Come riconosce l’a., la tesi in sé non è affatto nuova e può anzi vantare numerosi predecessori anche in campo storiografico (a partire da Carlo Morandi), ma va a contrastare l’attuale tendenza ad appiattire la storia del comunismo italiano su quella dell’esperienza sovietica. Dietro alla scissione di Livorno c’era insomma una lettura della storia d’Italia che rappresenterebbe «il patrimonio migliore […] di tutta la tradizione del comunismo italiano» (p. 20) e che spiegherebbe perché la nascita del Pcd’Ivenne accolta positivamente anche in ambienti estranei (a partire da esponenti del liberalismo democratico come Gobetti e Dorso).A dimostrazione di questa tesi, l’a. procede seguendo prima l’avvicinamento al congresso di Livorno nel pensiero di alcuni dei protagonisti, poi il dibattito congressuale (riuscendo fra l’altro nella difficile impresa di risultare avvincente), quindi la reazione di Gramsci di fronte a un esito – la scissione – che voleva evitare. Emerge così un paradosso, che almeno in parte rende più debole la tesi sostenuta nel libro: se alla fine la scissione fu determinata dall’inopinata convergenza tra la posizione di Bordiga e quella di Turati, mentre il progetto politico qui considerato motivo fondante del comunismo italiano in realtà venne sconfitto dal settarismo bordighiano, allora il vero luogo di gestazione di quel progetto – che corrispondeva in sostanza alla linea gramsciana – sarebbe Lione 1926 e non Livorno 1921.

Matteo Pasetti