Cerca

Fasciste di Salò. Una storia giudiziaria

Cecilia Nubola
Bari, Laterza, 222 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2016

Delazioni, tradimenti, torture, sadismo, esecuzioni sommarie. A chi desidera scrutare
negli abissi di bassezza e crudeltà che si spalancano quasi inevitabilmente durante una
guerra civile, il saggio di Cecilia Nubola Fasciste di Salò offre una panoramica piuttosto
vasta, ancora più impressionante perché declinata al femminile. A dispetto del titolo «generalista
», che risulta abbastanza fuorviante anche se è riequilibrato dal sottotitolo (non
riportato però in copertina) Una storia giudiziaria, il libro non tratta infatti il fenomeno
complessivo delle donne aderenti attivamente alla Repubblica sociale italiana, che furono
alcune migliaia, ma si concentra sulla categoria delle criminali di guerra, poche decine, ripercorrendone
le vicende giudiziarie dopo la Liberazione sulla base delle carte processuali.
Prevalgono quindi, nelle vicende ricostruite da Nubola, caratteristiche come la perfidia,
l’avidità e la ferocia, che però non possono essere addebitate in blocco all’intera componente
femminile della Rsi.
Il copione è abbastanza simile in quasi tutti i casi presi in considerazione dall’a. Di
solito si passa da condanne anche molto pesanti, irrogate nell’immediato dalle corti d’assise
straordinarie in un clima rovente di passioni antifasciste, a una successiva clemenza che consente
di uscire dal carcere anche alle donne responsabili di atti molto gravi. Si afferma nel
giro di poco tempo la volontà di lasciarsi alle spalle l’«Italia selvaggia» (p. 165) del biennio
1943-1945: il primo passo è l’amnistia varata dal guardasigilli Palmiro Togliatti nel giugno
1946, ma seguono poi diversi altri colpi di spugna. Contribuisce parecchio, com’è ovvio,
l’atteggiamento indulgente assunto da una magistratura ereditata dal passato regime e mai
epurata, quindi in linea di massima più benevola verso i combattenti della Rsi che nei riguardi
dei partigiani (specialmente i comunisti), ma adottato anche da politici d’indubbia
fede democratica come Aldo Moro, ministro della Giustizia negli anni ’50.
Tra l’altro, le detenute fasciste spesso riescono ad approfittare dei pregiudizi più
diffusi in fatto di «gentil sesso», che le vogliono per definizione deboli, inconsapevoli,
esposte al plagio di padri, mariti e amanti. Quasi nessuna di loro, nota l’a., mostrerà tuttavia
segni di resipiscenza. Preferiscono tacere sul passato, ma sono convinte di aver servito
una causa giusta. In alcune emerge anche, come movente della scelta compiuta, un moto
di emancipazione non del tutto collimante con l’ideologia del regime mussoliniano, che
tendeva a relegarle in un ruolo subalterno. «Le donne, molte almeno, si sentono soffocare,
chiuse nel cerchio di tradizioni che le obbligano ad assistere sempre a tutto come spettatrici,
al più come comparse, mai come attrici» (p. 66), scriveva una studentessa torinese di
fede littoria nel periodo della Rsi. «Mi dispiaceva di non essere nata uomo perché i maschi
potevano difendere la patria con le armi» (p. 65), dichiara negli anni ’90 Ada Paoletti, ex
ausiliaria di Salò. Ci credevano eccome nel fascismo, altro che plagio.

Antonio Carioti