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Giancarlo Monina (a cura di) – La via alla politica. Lelio Basso, Ugo La Malfa, Meuccio Ruini protagonisti della Costituente, Fondazione L. e L. Basso – 1999

Giancarlo Monina (a cura di)
Franco Angeli, Milano

Anno di pubblicazione: 1999

Relazioni di M. Salvati, G. Galasso, G. Quagliarello – rispettivamente su Basso, La Malfa e Ruini – seguite dagli interventi di S. Basso, G. Ferrara, G. Negri, A. Ricci, P. Craveri, P. Sabbatucci, e da un dibattito tra C. Pavone, G. De Luna, A. Natoli, A. Giolitti e appendici biografiche e bibliografiche: nel testo le tre vicende politiche sono l’occasione per approfondire il contributo delle “culture minoritarie” all’elaborazione della Costituzione e ai primi anni della storia repubblicana. Sulla base di un giudizio sulla Costituzione che oscilla tra “carta del compromesso tra i valori” e rinvio di molte questioni alle assemblee legislative, i relatori rivisitano le categorie della cultura costituzionale di un socialista eretico, di un azionista moderato fondatore del partito repubblicano e di un “vecchio” liberale. Lelio Basso contribuì innanzitutto alla redazione degli articoli 1 (centralità del lavoro) e 3 (eguaglianza dei cittadini). Fu però nell’ipotesi di costituzionalizzazione dei partiti che si rivelò la sua revisione delle idee fondamentali del costituzionalismo liberale – sovranità, persona, democrazia – sollecitata dalla convinzione che la crisi degli anni trenta in Europa avesse segnato il declino del parlamentarismo. Meno impegnato sul terreno costituzionale, La Malfa emerse sin dagli anni 1946-48 come lo stratega consapevole della necessità di mediare in Italia tra cattolicesimo e comunismo, intesi come modelli, in microcosmo, della macro contrapposizione internazionale tra Occidente e Oriente. Esponente del revisionismo liberale di orientamento radicale dopo la Grande Guerra, Ruini viene presentato come critico, nel 1946, del parlamentarismo senza limiti. Le sue proposte costituzionali – ruolo forte del capo dello Stato e autonomia del potere esecutivo dalle Camere – sono lette come posizioni analoghe alle coeve correnti centralistiche nel dibattito costituzionale francese (sconfitte con la IV, ma poi riemerse con la V Repubblica). C’è una simpatia verso quella soluzione gollista che Aron chiamò “l’impero liberale” e Cafagna ha definito l’esorcizzazione definitiva del cesarismo. Quagliariello arriva addirittura a scrivere che la riforma elettorale del 1953 “non merita di essere ricordata come legge truffa – Ruini la sostenne – perché integrata in un disegno complessivo di ricostituire i pilastri del governo di gabinetto”.
Eppure Calamandrei ci ha spiegato da quarant’anni e più che il fine della riforma elettorale era diverso: garantire il controllo governativo e clericale sullo Stato e sull’amministrazione, ottenere la penetrazione dei partiti di maggioranza nelle banche, nelle industrie e nell’apparato finanziario, rinviare sine die e cancellare di fatto gli istituti previsti dalla Costituzione, ma ancora inattuati. Il parlamentarismo imbrigliato avrebbe voluto chiudere piuttosto gli spazi inediti apertisi con la Resistenza, con la conquista della Repubblica e il protagonismo di nuovi attori politici.

Michele Battini