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Giorgio Rumi – Gioberti – 1999

Giorgio Rumi
il Mulino, Bologna

Anno di pubblicazione: 1999

Il Gioberti di Rumi si presenta come un’esposizione, necessariamente rapida, ma in vari punti brillante, di tre opere giobertiane: il saggio sulla nazionalità apparso come lunga nota della seconda edizione del Gesuita moderno, (ma pubblicato anche a parte), il Primato e il Rinnovamento; nonché, per il triennio 1847-49, sull’esplorazione dell’epistolario. Il libro prosegue con un veloce escurso sulla storiografia, che prende le mosse dal volume dell’Omodeo del 1941 ed esordisce con una asserzione a dir poco sorprendente – “a metà Novecento, si riscopre Gioberti” -; e si chiude con un capitolo, dai tratti rapsodici, sul giobertismo latente nella storia italiana, che termina con ampie citazioni dalla “Grande preghiera per l’Italia e con l’Italia” di Giovanni Paolo II, presentata come momento apicale e in certo modo conclusivo dell’”ultima vittoria” di Gioberti.
L’idea di ritagliare, nell’alluvionale produzione giobertiana, le tre opere sopra ricordate è una scelta legittima dell’a., anche in relazione alla natura non erudita della collana; ma si tratta di scelta pericolosa, proprio in rapporto alla tesi che sembra costituire l’asse dell’opera. Se, come Rumi mostra di pensare, il principale punto di forza e di pressante attualità di Gioberti consiste nell’aver reperito nella religione l’anima della nazione e nel cattolicesimo il proprium dell’identità italiana, diventa difficile sorvolare o tacere della religione e del cattolicesimo di Gioberti e in Gioberti. E a questo fine non è agevole riferirsi esclusivamente alle tre opere qui utilizzate, trascurando, per non dir altro, lo straordinario corpus delle cosiddette opere postume. Il pericolo è di dare di Gioberti un’immagine edulcorata. Rumi ha certamente ragione quando considera Gioberti uno degli autori ottocenteschi che hanno maggiormente avvertito il problema del rapporto tra religione e nazione, ma pare a me difficile dimenticare che la parte forse preponderante del pensiero giobertiano fu dedicata all’analisi delle condizioni, teoretiche ed etiche, di una possibile o addirittura necessaria saldatura tra cattolicesimo e nazionalità nel caso italiano. Rumi appare reticente sul fatto che Gioberti prospettava non una riforma della chiesa, bensì una “riforma intellettuale e morale” del cattolicesimo, proprio perché lavorava intorno all’idea di religione come fulcro della nazionalità, e all’idea di nazione come espressione più alta del progresso moderno. La “forma di quella riforma” costituisce il cuore della questione giobertiana, sul quale la critica – non solo quella filosofica – si è da sempre interrogata. In sede di bilancio storiografico valeva forse la pena di accennare almeno alle letture giobertiane di De Sanctis, di Spaventa, di Gentile, di Anzilotti o di Del Noce, che, esattamente nell’ottica privilegiata da Rumi, avevano qualche maggior titolo di Gianfranco Miglio per essere ricordate. Valeva anche la pena di ricordare che nel 1849 il Gesuita Moderno era stato messo all’Indice e che nel 1852 tutte le opere giobertiane erano state condannate dalla Sacra Congregazione del Sant’Uffizio.

Francesco Traniello