Cerca

Giovanna De Angelis – Le donne e la Shoah – 2007

Giovanna De Angelis
Prefazione di Anna Foa, Roma, Avagliano, 176 pp., Euro 13,00

Anno di pubblicazione: 2007

La riflessione che il libro di Giovanna De Angelis propone al lettore affronta un tema su cui, da qualche tempo, è presente un fitto dibattito storiografico relativo a come e cosa si dicono la Memoria e la Storia quando s’incontrano. L’a. concentra il suo studio sulla Shoah partendo da una prospettiva propria dei gender studies che complica il quadro della discussione immettendo nel libro la ferita di genere come specifica pista di ricerca e di interpretazione. De Angelis parte dalla realtà dei ghetti polacchi, per definire il ruolo della donna all’interno di queste «realtà concentrazionarie», in cui, accanto alla riproposizione dei ruoli muliebri e materni tradizionalmente attribuiti alla femminilità, si riformulano diversamente i confini di genere dopo la perdita degli affetti biologico-familiari e delle identità a questi legati. Le forme della soggettività letteraria prendono corpo nella seconda sezione, che avvia un’analisi puntuale su alcuni testi che cercano di raccontare una realtà e un’esperienza difficilmente restituibili alla parola. Etty Hillesum, Gertrud Kolmar, Liliana Segre, Giuliana Tedeschi vengono raccontate dall’a. in una duplice ottica: da un lato come testimoni dell’orrore, dall’altro come donne che narrano la propria «acquisizione del sé» nello spazio simbolico e concreto dell’universo concentrazionario. Osservando le proprie compagne del campo di Westerbork, nelle pagine del suo diario, Hillesum, per esempio, riversa non solo pensieri sull’esperienza coattiva del campo, ma si concede anche uno spazio intimo e conoscitivo che la porta a riflettere filosoficamente sui diversi modi di concepire l’amore nell’uomo e nella donna, sul perché «la donna cerca l’uomo e non l’umanità», fino ad arrivare alla conclusione che «siamo legate e costrette da tradizioni secolari. Dobbiamo ancora nascere come persone» (p. 77). Hillesum cerca una lingua che «ospiti» il proprio vissuto, cerca, con le altre sue compagne, di creare una rete affettiva e solidale da contrapporre alle umiliazioni, fisiche e psicologiche, di tutti i giorni. Ricerca che nella prosa di Edith Bruck – a cui la studiosa dedica la parte finale del libro – viene abbandonata, insieme alla sua lingua madre – l’ungherese – in favore dell’italiano, aderendo, con questa opzione linguistica, al suo viversi sopravvissuta a un’esperienza che non concede patria né lingua ma la sola condizione dell’essere apolide senza attese di riscatto. La scrittura della Bruck esclude forme consolatorie dell’esistere «dopo» la Shoah e assume l’esperienza concentrazionaria come dolore perpetuo e solitario perché la solidarietà, umana e di genere, non esisteva, anzi, come lei stessa scrive, «nei campi, le donne si comportavano assai peggio degli uomini» (p. 151). Il libro si chiude su questa figura di donna, di scrittrice, di testimone di un evento davanti al quale la parola e la scrittura sembrano balbettare. Proprio perciò il pregio del libro sta sul confine tra detto e indicibile: istituire una soglia d’ingresso per accedere a un mondo sommerso.

Elena Mazzini