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Giovanni Borgognone – Max Eastman e le libertà americane – 2004

Giovanni Borgognone
Milano, Franco Angeli, pp. 330, euro 22,50

Anno di pubblicazione: 2004

Il libro ripercorre la vicenda biografica e intellettuale di Max Eastman, uno degli esponenti più vivaci del ricco dibattito culturale statunitense novecentesco, anche se la sua fama, negli ultimi anni, si è appannata. Un percorso interessante, quello che viene qui proposto, su un personaggio poliedrico come Eastman: militante e intellettuale, autore di libri di poesia e di critica letteraria come pure di saggi sul pensiero marxista, direttore della rivista radicale «The Masses» e lecturer alla Columbia. L’autore ricostruisce il passaggio della sua figura ? da quella del bohèmien degli anni Dieci e del fellow traveller, ?compagno di strada? dei bolscevichi, a quella dell’intellettuale deluso sia dall’involuzione autoritaria del regime stalinista sia, poi, dallo stesso trockismo, e approdato, in nome dell’anticomunismo, alle sponde del pensiero conservatore negli anni Quaranta ? attraverso un’analisi molto serrata dei suoi testi principali (da Towards Liberty del 1916 a Marx, Lenin and the Science of Revolution del 1926, da The End of Socialism del 1937 a Stalin’s Russia and the Crisis of Socialism del 1940, solo per citarne alcuni), e del dibattito da essi suscitato, con protagonisti del calibro di John Dewey, Sidney Hook, Isaiah Berlin, Edmund Wilson.
Non è qui possibile entrare nel merito delle questioni complesse che emergono dal libro. D’altronde la vita di Eastman fornisce la possibilità di indagare su uno dei periodi più significativi della cultura politica americana: l’esperimento progressista e la delusione seguita alla Conferenza di Versailles, gli anni Venti e l’avvento della società di massa, la crisi del ’29 e il New Deal, la guerra fredda e i movimenti degli anni ’60. L’aver posto l’attenzione su una figura come quella di Eastman, anticonformista e libertaria, rappresenta uno dei pregi del volume. Purtroppo, l’analisi troppo interna ai testi e a un dibattito che coinvolgeva settori importanti, seppure minoritari come quelli legati al radicalismo americano, è andata a scapito di una contestualizzazione storica che avrebbe giovato all’analisi e contribuito ad evitare semplificazioni eccessive. Cito solo alcuni esempi. Appare alquanto schematico affermare che i valori della virtù, della lealtà e dell’autodisciplina fossero patrimonio esclusivo del pensiero conservatore (p. 255), perché tali valori erano propri anche del pensiero progressista, come il caso di John Dewey, più volte richiamato per l’influenza che le sue tesi ebbero su Eastman, sta a dimostrare. Lo stesso dicasi per i principi dell’industrialismo e del darwinismo sociale che non erano patrimonio solo del pensiero conservatore, ma costituivano punti di riferimento (ambivalenti e contraddittori quanto si vuole) del pensiero liberal americano, la cui complessità non emerge dall’analisi dell’autore. Inoltre, appare francamente sorprendente, dopo anni di studi di valenti storici americani (che qui sono ignorati) porre un autore ?eccentrico’ come George Fitzhugh, ideologo del razzismo sudista prima della guerra civile, quale esponente di una ?solida tradizione conservatrice nazionale americana?, che è estremamente sfaccettata e che spesso lo ignora, non avendo bisogno di lui.

Raffaella Baritono