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Giuseppe Di Candido – Calciatori in camicia nera. Lo sport più amato dagli italiani durante il fascismo – 2006

Giuseppe Di Candido
Roma, Edizioni Associate, 147 pp., euro 12,00

Anno di pubblicazione: 2006

Giuseppe Di Candido, un giovane studioso di storia sportiva, affronta con garbo un tema su cui, nonostante una tradizione di studi bene avviata, che ne hanno mostrato la complessità, circolano non pochi luoghi comuni. Il sottotitolo del libro ci dice che si intende raccontare la storia non del calcio fascista, ma del calcio durante il fascismo. Non è un gioco di parole, né una sottigliezza accademica. Il fascismo provò a mettere in camicia nera ogni aspetto della vita civile e culturale, ma con risultati non sempre felici. Certo l’intrinseca disciplina del corpo propria delle attività sportive lasciava immaginare una naturale predisposizione a farsi oggetto di conquista culturale da parte del fascismo. Ma attenzione a non confondere le attività ginniche o di destrezza con l’agonismo sportivo di derivazione britannica. Esemplare è proprio il caso del calcio, ampiamente sfruttato dal regime e, tuttavia, estraneo, per sua natura, all’integralismo ideologico fascista. È tempo di riassumere le linee generali del lavoro di Di Candido. Sono individuate cinque ragioni che spinsero il regime a interessarsi di calcio. Esso rientrava nei progetti ideologici per la formazione dell’uomo nuovo. Lo spettacolo del rettangolo verde e l’attività sportiva in generale costituivano anche una delle strade del controllo sociale e dei processi di nazionalizzazione. Ma il calcio finì per essere soprattutto una vetrina dell’efficienza dello Stato e un modo per esaltare il prestigio nazionale. La storia del calcio tra le due guerre ci narra di grandi imprese, dovute all’emergere di alcuni fuoriclasse e alla razionalizzazione del sistema sportivo. Infatti, se da una parte la retorica del salutismo e della vigoria del corpo esaltava la pratica di massa, nello stesso tempo le grandi federazioni, come quella del calcio, proponevano una rigida selezione meritocratica per l’accesso alle attività agonistiche superiori. L’importante era, come in ogni angolo del mondo sportivo internazionale, vincere. L’Italia ci riuscì per la soddisfazione degli appassionati e per la gioia del regime, che vi colse un’occasione per la propaganda. Esemplare la vicenda dei campionati del mondo disputati in Italia nel 1934. Mussolini ebbe qualche titubanza nell’assegnare i finanziamenti richiesti per la loro organizzazione. Se ne convinse solo pensando, al di là dell’esito sportivo, al ritorno di immagine in campo internazionale. Naturalmente la vittoria fu caricata di significati politici e nazionalistici. Da quel momento il calcio, uno sport negli anni ’20 già popolare, ma estraneo agli interessi ideologici del fascismo, accrebbe enormemente la sua rilevanza politica. Le pagine dedicate da Di Candido ai trionfi della seconda metà degli anni ’30 ripercorrono questa accresciuta e strumentale importanza. Ciò nonostante il mondo del pallone, come dello sport in generale, tese a conservare, e non certamente per spirito di resistenza politica, la sua autonomia culturale. Basti pensare al rispetto che tutti gli uomini del calcio conservarono sempre per i maestri d’oltre Manica.

Guido Panico