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Giuseppe Speciale – Giudici e razza nell’Italia fascista – 2007

Giuseppe Speciale
Torino, Giappichelli, 296 pp., Euro 25,00

Anno di pubblicazione: 2007

Il saggio ricostruisce una delle vicende nodali dell’Italia contemporanea, l’introduzione nel 1938 delle leggi antiebraiche. Focus della ricerca è la giurisprudenza, stretta tra le contingenze politiche del fascismo e un’eredità intellettuale spesso legata a concezioni liberali. L’oggetto privilegiato non sono gli ebrei, i discriminati, parte lesa del razzismo di regime, quanto i giudici, costretti ad applicare le norme razziali per «ragioni d’ufficio», al di là di una convinzione intima. E questo mi sembra un secondo tratto originale e di pregio del volume, quello di rappresentare uno sforzo di indagine sulla «coscienza di ceto» dei magistrati, sulla riflessione che obtorto collo, pressati dal contingente dover scegliere (il modo in cui le leggi infami erano interpretate e applicate era tutt’altro che vicenda meramente tecnica), i magistrati svolsero su loro stessi: «l’ebreo, il discriminato, il perseguitato, il diverso da espellere […] finisce, al di là di ogni sua intenzione, per costituire e incarnare l’elemento scandaloso che costringe l’altro, il non ebreo, il giudice a riflettere, prima di tutto su se stesso, sulla propria storia, sulla propria identità» (p. 4).In una prima parte di carattere introduttivo Speciale si sofferma sui tratti e l’origine delle leggi del ’38, ribadendo, come ormai vuole la gran parte degli storici, l’assurdità di posizioni autoassolutorie che ridurrebbero l’antisemitismo a un «tributo» che l’Italia dovette pagare all’alleato nazista. Appare un razzismo coerente con l’eugenetica del regime, con la politica coloniale, soprattutto coerente con una certa idea di romanità, così come si volle presentare da parte degli studiosi «di regime» nello scorcio degli anni ’30. L’antisemitismo di Stato è, insomma, un portato del nazionalismo e del fanatismo intollerante del fascismo.La parte seguente, la più notevole, riporta «voci dalle sentenze», una chiara e ben presentata disanima della giurisprudenza prodotta tra il ’38 e il ’43 (il periodo repubblichino non è esaminato in considerazione del mutamento della cornice politico-istituzionale). Emergono qui grandi figure di giuristi, quali Alessandro Galante Garrone, Riccardo Peretti Griva, Piero Calamandrei, Arturo Carlo Jemolo e altri, autori di quel «generoso tradimento», come lo definisce l’a., dei reali intendimenti delle leggi, ma fatto in nome della legge stessa, di una sua concezione ancora ferma ai principi di stretta legalità, di eguaglianza formale dei cittadini. Ne risultò un’interpretazione delle leggi tutta volta a tradirne lo spirito e limitarne al minimo l’applicazione e il danno per gli ebrei. Il saggio si spinge fino all’analisi della giurisprudenza sulla legislazione risarcitoria del dopoguerra, rivelando come si sia a volte passati a una «ingenerosa fedeltà» alla legge, ostacolando l’assegnazione dei dovuti sussidi con atteggiamenti legalistici, ma in contrasto con i principi repubblicani.Si tratta di un libro importante, una ricerca condotta con serietà che apre uno squarcio su un aspetto fondamentale (quello storico-giuridico) poco indagato dalla storiografia, per lo più incentrata sugli aspetti storico-politici o storico-sociali.

Olindo De Napoli