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I sei giorni che sconvolsero il mondo. La crisi dei missili di Cuba e le sue percezioni internazionali

Leonardo Campus
Milano, Le Monnier, XIII-541 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2014

La crisi dei missili a Cuba fu «una clamorosa epifania internazionale» del potere distruttivo dell’arma termonucleare (p. 384). Non sorprende che il suo svolgimento e le sue conseguenze di lungo periodo siano stati i temi sui quali nel mondo più è stato scritto e discusso nel corso e dopo la fine della guerra fredda. Analizzarla da una «prospettiva radicalmente diversa da quella cui siamo abituati», come promette la prefazione di John Harper (p. XI) è impresa irrealizzabile. La scelta di Campus di concentrarsi «sullo studio della percezione immediata» della crisi negli Stati Uniti e in Italia e da parte di politologi, religiosi e scienziati, consente invece un approccio originale a eventi noti. Nel quadro che emerge, solo i dirigenti di Usa e Unione Sovietica si mostrano da subito consapevoli del significato della crisi, e della necessità di accordi bilaterali per impedire la sua ripetizione. Per il resto la crisi portò nel breve periodo al rafforzamento di opinioni e comportamenti consolidati. Negli Usa essa favorì la diffusione di «un vago senso di onnipotenza» e una mobilitazione generale «per la bandiera» (pp. 151 e 223). Accadde il contrario in Italia, dove la pur ideologizzata opinione pubblica si mostrò «non disattenta, ma neanche terrorizzata», e poco disposta a mobilitazioni di massa (p. 352). Contribuirono a questa passività il «sostegno timido e indiretto» concesso dalla Dc e da Fanfani in persona agli Usa (p. 293) e il malcelato scetticismo di Togliatti nei confronti della politica di Chruščev (p. 298). Non meno provinciale fu la reazione degli intellettuali, per i quali la crisi fu l’occasione di rilanciare antichi anatemi anticomunisti da un lato e per firmare pleonastici appelli contro le basi della Nato dall’altro. Se la cavarono meglio politologi, religiosi e scienziati, che in tutto il mondo cominciarono a interrogarsi sulle ragioni della crisi. Le creazioni artistiche di Kubrik, Vonnegut, Dylan, e il rifiuto di celebri scienziati di partecipare ai programmi di riarmo nucleare, il rinnovato impegno di molte Chiese per la pace, crearono le premesse per un impegno pacifista non ideologizzato e non ispirato dalla sola paura. Anche il lapidario giudizio di Morgenthau, per il quale la soluzione della crisi di Cuba era stata per gli Usa «un successo tattico, e una sconfitta strategica» (p. 246), così lontano dalla percezione dell’opinione pubblica occidentale, ma anche sovietica, esprimeva la consapevolezza che la crisi aveva aperto una nuova fase della guerra fredda.
È difficile per i contemporanei cogliere il significato di svolte epocali, e ancor più arduo adattare idee, politiche, pratiche sociali alla nuova realtà, soprattutto quando essa riguarda la politica internazionale. Questa la conclusione, non sorprendente, che può essere tratta dal lavoro di Campus, che ha il merito di argomentarla con un’opera scrupolosa di documentazione e con un’esposizione chiara, appesantita da un eccesso di citazioni.

Fabio Bettanin