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Il Cimitero acattolico di Roma. La presenza protestante nella città del papa

Antonio Menniti Ippolito
Roma, Viella, 225 pp., € 25,00

Anno di pubblicazione: 2014

La storia del Cimitero acattolico di Roma presso la Piramide Cestia è un vero e proprio
case study utile a ricostruire le condizioni giuridiche delle minoranze religiose nella
Roma del papa re. Il tema, appena accennato in saggi relativi alle presenze soprattutto
protestanti antecedenti al 1870, trova in questo volume uno sviluppo e un approfondimento
adeguati alla rilevanza di una questione non solo simbolica.
La singolare amministrazione del cimitero, affidata a quattordici ambasciatori rappresentanti
paesi con significativa presenza protestante o cristiano ortodossa greca e russa,
«è l’evoluzione di una situazione già delineatasi nel primo ’800» (p. 14). Dall’analisi delle
fonti disponibili, l’a. arriva quindi a concludere che, nonostante il confessionalismo duro
dello Stato pontificio, quello di Testaccio «fu un sepolcreto degli, e non per gli, acattolici»
(pp. 13 e 188).
Il nodo storico che il libro intende sciogliere è quello delle cause di questa sorta di
deroga nello ius moriendi dei non cattolici. A nostro avviso correttamente, l’a. non persegue
la pista della umana pietas nei riguardi di quelli che erano e restavano «eretici», ma
sceglie di esplorare il sentiero delle relazioni internazionali dello Stato pontificio. Siamo
in un momento storico difficile e delicato per le minoranze cattoliche in vari Stati «settentrionali
» massicciamente orientati verso il protestantesimo; il criterio della realpolitik
imponeva quindi di mostrare qualche tolleranza almeno nel momento in cui si concludeva
l’esistenza terrena di seguaci dell’eresia protestante che per avventura si trovavano in
territorio pontificio.
La tesi è rafforzata da una fonte reperita nell’Archivio segreto vaticano che, benché
anonima, la esprime con autorevolezza e determinazione. Oltretutto, Roma era tappa ineludibile
del Grand Tour ed era meta obbligata di dignitari, uomini d’affari ed esperti d’arte
ai quali il papa, sorvolando sulla loro appartenenza confessionale, non negava un’udienza
privata: un gesto di benevolenza che mal si sarebbe conciliato con il diniego, in caso di
morte accidentale di un ospite di riguardo, di un luogo per una dignitosa sepoltura. Inoltre,
proprio negli anni in cui il cimitero accoglieva le prime salme, si trasferiva a Roma la
corte di Giacomo III – figlio del sovrano che in Irlanda aveva perso lo scontro con le fazioni
protestanti capitanate da Guglielmo d’Orange – che comprendeva anche non cattolici
evidentemente giudicati meritevoli di una tomba in un’area cimiteriale dedicata, diversa
da quella degli «impenitenti», impersonale e malfamata. E se non il primo, certamente tra
i primi acattolici sepolti al cimitero di Testaccio vi fu proprio un «giacobita protestante»
di nome William Arthur.
In quel fazzoletto di terra che sopravvive nel cuore di uno sviluppo metropolitano
disordinato e talora volgare, si condensa così una storia importante che lega personaggi
come Keats e il figlio di Goethe, Gramsci e Gadda, Dario Bellezza e Miriam Mafai e che,
per quanto possibile, oggi è stata opportunamente e brillantemente ricostruita.

 Paolo Naso