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Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista

Luigi Lacchè (a cura di)
Roma, Donzelli, XXXVIII-313 pp., € 30,00

Anno di pubblicazione: 2015

Il volume raccoglie tredici saggi (più la corposa e stimolante introduzione del cura- tore) di studiosi, non solo italiani, che negli ultimi anni hanno contribuito a svecchiare lo studio delle politiche della giustizia, della repressione e del controllo dell’Italia fascista. Gli aa., nella maggior parte, ritornano qui sulle loro ricerche più note, proponendo una sintesi dei risultati, un aggiornamento e una problematizzazione interpretativa, mentre in pochi casi anticipano risultati di lavori non ancora conclusi. Più che nella novità dei singoli frammenti, dunque, è nella ricchezza del quadro d’insieme che risiede il maggiore motivo d’interesse del libro. Ci viene infatti offerto un quadro generale dei temi e delle singole istituzioni, con saggi che prendono in esame, tra l’altro, il Tribunale speciale dello Stato (D’Alessandro, Bassani e Cantoni), la magistratura (Meniconi), il confino di polizia (Poesio), la «giustizia della razza» (Speciale), la psichiatria e l’internamento manicomiale (Petracci), l’uso della grazia (Stronati). Il coinvolgimento sia di storici sia di giuristi e studiosi delle dottrine giuridiche garantisce la presenza di approcci metodologici diversi, che consente di evitare di riproporre un’ancora troppo frequente segmentazione e com- partimentazione disciplinare, e, al tempo stesso, di misurare meglio avanzamenti e ritardi degli studi.
Al fondo, echeggia – da alcuni espressamente richiamata, da altri trattata implici- tamente – la grande questione con cui da sempre gli studiosi dello Stato fascista si sono confrontati e che alcuni anni fa Guido Melis sintetizzò con la domanda «quanto furono fasciste le istituzioni fasciste?». Domanda classica, per rispondere alla quale appare inevi- tabile, da un lato, rifuggire da ogni lettura «formalistica» e, dall’altro, mettere la compa- razione al centro della riflessione interpretativa.
Sul primo punto, l’attenzione, richiamata tra gli altri da Meniconi, a non guardare solo le norme e i proclami ufficiali ma anche le prassi e i rapporti tra i soggetti coinvolti costituisce ormai un’acquisizione condivisa, messa in pratica e sviluppata, anche se non sempre coerentemente, in quasi tutti i saggi del libro. Per quanto riguarda il secondo, la comparazione è svolta con il prima (la consapevolezza del complesso intreccio di continu- ità e discontinuità con l’Italia liberale attraversa tutto il libro), con il dopo (opportuna, tra l’altro, è l’inclusione di un contributo, di Rovatti, sulla Repubblica sociale italiana, troppo spesso espunta dalla storia del fascismo) e con quello che avviene fuori: nella Germania nazista, naturalmente (vi insistono soprattutto Bushart, Vormbaum e Poesio) ma, anche, nelle democrazie (qui soprattutto l’interessante saggio di Skinner, sui reati di vilipendio in Italia e di libello sedizioso in Gran Bretagna).

Alessio Gagliardi