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Il populismo

Loris Zanatta
Roma, Carocci, 166 pp., € 14,00

Anno di pubblicazione: 2013

Valente storico dell’America Latina, non da oggi Zanatta accompagna la sua ricerca con una riflessione teorica sul populismo. Qui ne distilla l’essenza. Chi siano i Perón, i Berlusconi o i Castro è dato per noto. Appaiono come diverse personificazioni di un concetto tra i più sfuggenti, che nel lessico politico ha valenze negative e non è mai autodefinitorio, se non per paradosso. Già storici e politologi hanno elencato gli attributi possibili del populismo, che è un fenomeno proprio di società di massa minacciate da crisi di disgregazione (oggi per effetto della globalizzazione). Leader carismatici che si pretendono uomini comuni ed estranei al corpo politico ottengono consenso esprimendo una pulsione unanimista verso una comunità indifferenziata, di tipo organico (il «popolo») radicata in un generico passato essenzialista. In una cosmologia manichea che oppone il bene al male, il leader populista combatte gli agenti interni della frattura sociale, siano immigrati, internazionalisti, oppositori, diversi, ma anche le élite, i politici, o gli intellettuali in quanto rappresentanti di un individualismo critico. Nei vari casi e fasi la pulsione omogeneizzante può sfociare in regimi autoritari-totalitari, fascisti o comunisti, oppure, costretta a ibridarsi con la democrazia liberale, imbrigliata nello stato di diritto, dà luogo a più morbidi «populismi costituzionali».
Zanatta si concentra sull’America Latina, «paradiso populista» per il ruolo svoltovi dai soggetti dell’immaginario unanimista – famiglia, corpi, comunità territoriali – e per la robustezza di una cristianità cattolica che nei secoli ha resistito «ai venti disgregatori della Riforma prima e dei Lumi poi» (p. 51). L’appello alla comunità naturale indifferenziata, armonica, esprime infatti la reazione cristiana alla lacerazione, imputata al liberalismo, del rapporto tra Dio e l’uomo, e dunque una insofferenza, una impermeabilità al pluralismo illuminista e all’equilibrio dei poteri originati nel mondo nordico-protestante. Da qui la matrice religiosa del dogma manicheo bene/male, noi/loro e la sacralizzazione della politica in un mondo latino dove lo stesso comunismo si presenta come «un’eresia cristiana» (p. 93).
La tesi è convincente e aiuta a comprendere le forme della politica rappresentativa nei paesi latino-cattolici. Rimane il dubbio che non tanto l’America Latina offra il modello rivelatore del moderno populismo, come vorrebbe l’a., ma piuttosto che il populismo sia un concetto utile a capire i paesi latino-cattolici, ma non altri. La «diffusa estraneità di vaste fasce della popolazione […] all’architettura della democrazia liberale e al suo spirito» (p. 127), che l’a. individua in America Latina, si ritrova infatti con configurazioni proprie anche altrove, in Asia o in Africa, dove la dimensione religiosa non si identifica con la cristianità: così ad esempio accade anche ai valori incaici di Evo Morales, ai riti pagani reinventati dalla Lega Nord, e soprattutto ai valori musulmani, qui del tutto ignorati (anche se di sfuggita si dice: «buona parte del mondo islamico è già avviata in tal senso», p. 133).

Raffaele Romanelli