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István Rév – Giustizia retroattiva. Preistoria del postcomunismo – 2007

István Rév
Milano, Feltrinelli, 346 pp., Euro 35,00 (ed. or. Stanford, 2005)

Anno di pubblicazione: 2007

Storici chiamati a scrivere di «tempi tristi» (p. 13) in un’Europa centro-orientale dove «gli assassini e le loro vittime, soprattutto gli assassini comunisti e le loro vittime comuniste» vivono per decenni «in una prossimità incestuosa» (p. 15): sin dall’Introduzione il libro di Rév si presenta come un’esplorazione tutt’altro che convenzionale nello straordinario intreccio tra passato e presente offerto dal postcomunismo ungherese, con il suo corteo di corpi seppelliti e riesumati, funerali vietati o celebrati in forma privata e dopo il 1989 trasformati in pomposi eventi pubblici. Il direttore degli Open Society Archives, egli stesso figlio di questa storia tragica e grottesca, partendo da una materia così densa – l’ossessione per il corpo umano e la sua continua ritualizzazione – plasma un testo poliedrico, in cui la narrazione si spezza frequentemente in frammenti di psicanalisi, critica letteraria e semantica del linguaggio. I sette capitoli, rielaborazione di materiale già pubblicato, sono accomunati dall’ossessiva ansia di smontare e ricostruire i meccanismi di formazione della memoria ufficiale. Rév analizza dunque la genesi del pantheon del movimento operaio, un mausoleo situato all’interno del cimitero Kerepesi di Budapest; narra la trasmigrazione plurima nella memoria collettiva del corpo più «scandaloso» della storia ungherese del ‘900, quello del comunista Imre Nagy, assassinato per volontà di un regime comunista e riabilitato, 31 anni dopo, dallo stesso sistema; indugia sulla sacralizzazione delle date assunte nei vari periodi storici a simbolo della storia nazionale (15 e 21 marzo, 4 aprile, 23 ottobre e 4 novembre); ritorna su un passaggio tuttora controverso della storia ungherese recente, il linciaggio degli agenti della polizia politica da parte dei rivoluzionari, il 30 ottobre 1956; decostruisce la cronaca settantennale del processo a carico di un membro delle formazioni paramilitari responsabili delle violenze antisemite dell’autunno 1919 (l’istruttoria avviata nel 1921 viene bloccata dall’amnistia concessa dall’ammiraglio Horthy, ma il caso riprende vita 25 anni più tardi, con una condanna a morte in contumacia, e nuovamente nel 1957, quando il «colpevole» viene finalmente scovato e condannato a morte nell’ambito della campagna di repressione post-1956. Interpellata dalla famiglia del condannato, nel 1994 la Corte Suprema ungherese confermerà che tutti gli atti originati nel corso di 73 anni sono da considerarsi giuridicamente validi e inappellabili).Il capitolo più stimolante resta il secondo (Il necronomico), dedicato all’ultimo discorso pronunciato da János Kádár il 12 aprile 1989 di fronte a un attonito Comitato centrale. L’ormai moribondo ex primo segretario rivela l’angoscia e il senso di colpa legato a quel nome, Imre Nagy, mai pronunciato neppure in privato per oltre trent’anni. Come dimostra tuttavia anche il sesto capitolo sulla fallita costruzione della metropolitana di Budapest, modellata su quella moscovita, nei primi anni ’50, l’a. riporta in superficie e restituisce una fisicità intensa, talora deforme, alla «storia sotterranea» di un pezzo di Europa.

Stefano Bottoni