Cerca

Jean Marc Leveratto – Cinéma, spaghettis, classe ouvrière et immigration – 2010

Jean Marc Leveratto
Clamecy, Éditions La Dispute, 215 pp., € 15,00

Anno di pubblicazione: 2010

Contro il rigido determinismo di certa scuola francese, il sociologo Jean Marc Leveratto insegue da tempo una nuova idea di «sociabilité artistique», fondata sullo studio degli oggetti culturali e delle loro interferenze con i corpi e le consuetudini degli spettatori. All’interno di tale prospettiva critica il cinema si configura come luogo privilegiato di costruzione identitaria, come linguaggio aperto alle rifrazioni del mondo, e quindi come straordinario archivio di memorie pubbliche e private.I cinque saggi che compongono il volume Cinéma, spaghettis, classe ouvrière et immigration sono il risultato di una consapevole provocazione, poiché intendono «renouer les liens entre sociologie de la culture et histoire sociale, et entre histoire de l’art et histoire des publics, liens rompus en France par une focalisation presque exclusive des enquêtes sociologiques et des recherches historiques sur les professions artistiques» (p. 11). È il metodo della «micro-storia» a garantire la possibilità di un tale sovvertimento dei consueti parametri di osservazione del fatto filmico (per cui al centro dell’osservazione non c’è più il regista, ma lo spettatore «ordinario») e fa piacere che nelle intenzioni programmatiche della ricerca venga tirato in causa il «nostro» Carlo Ginzburg a proposito del Formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del Cinquecento (Torino, Einaudi, 1975). Il ricorso alla narrazione e alle fonti proprie della micro-storia consente di verificare l’intreccio tra classe operaia e cultura cinematografica e di comprendere meglio il modo in cui l’economia ha partecipato alla produzione e alla distribuzione di film su scala mondiale. L’eterogeneità dei capitoli del libro offre una quadro di indagini preziose, sempre sostenute da precisione etnografica e tensione aneddotica, dove emerge intermittente la memoria personale dell’a. Ciò che rende innovativo l’approccio di Leveratto al linguaggio cinematografico è il costante richiamo al vissuto dello spettatore, a quella rete di «relations que nouent les corps et les films entre ces cadres de l’expérience que sont la famille, la communauté locale, la genre et le marché mondial du spectacle» (p. 16). È il piacere della visione allora lo strumento attraverso cui mettere in relazione estetica (della forma) ed etica (dello sguardo), e così le rigide impalcature accademiche della sociologia vengono scosse fin nelle fondamenta a favore dell’appassionata lezione di Lévi-Strauss, secondo il quale «l’osservatore fa parte dell’osservazione».A chi sceglie di attraversare in lungo e in largo la mappa di storie e memorie disegnate all’interno del libro resta però in bocca il retrogusto amaro di pane e cioccolato, la nostalgia per un mondo in cui alla classe operaia bastava sedersi dentro una sala cinematografica per andare in paradiso. Oggi le sale si svuotano, e gli spaghetti sono conditi dalla scia rosso sangue di un’immigrazione fuori controllo.

Stefania Rimini