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John Julius Norwich – Venezia. Nascita di un mito romantico – 2006

John Julius Norwich
Milano, Il Saggiatore, 285 pp., euro 19,50 (ed. or. London-New York, 2003)

Anno di pubblicazione: 2006

Inizio preoccupante, il lettore e magari anche scrittore di cose veneziane paventa di ritrovarsi di fronte alla sempiterna lamentazione sulla «morte di Venezia», coi vecchi patrizi del 1797 tremebondi, quattro giovinastri di giacobini e i fedeli Schiavoni in riva che salutano mestamente la fine della Serenissima. Ma subito il discorso si raddrizza. Si arriva persino (par. 2) a «dir bene» di Napoleone, ancor oggi parametro nefasto non solo per i leghisti, constatando quante cose riesce a fare e avviare a Venezia in così poco tempo. A questo punto l’affresco analitico di Norwich entra nel vivo: gli inglesi a Venezia nell’Ottocento. Quando vi arriva per la prima volta ciascuno di loro, quante volte, per quanto tempo, e se stabilmente o in visita: al Danieli, all’Hotel Belle Vue et de Russie o alla Pensione Calcina, in un palazzo sul Canal Grande, comprato, affittato o aperto agli ospiti. Byron, Ruskin, i Brown, Henry James, Robert Browning, i Layard, Whistler e Sargent, Frederick Rolfe ovverosia il Baron Corvo; e in più Richard Wagner: ognuno titolare di un certo numero di viaggi e soggiorni a Venezia, e di un paragrafo di 15-20 pagine. Ci vengono restituiti dieci sguardi devoti e mitizzanti ? qualcuno di più, con le reti salottiere di cui ciascuno entra a far parte, quasi esclusivamente «le colonie di residenti inglesi», e che perciò si ripetono lungo il corso del secolo: Byron scopre Venezia nel 1816, il critico e storico dell’arte Ruskin ? con lui il più illustre e influente «inglese a Venezia» ? la vede per la prima volta nel 1835, James vi arriva a piedi dalla Svizzera nel 1869, il più stravagante ed eccentrico di tutti (per la gente, quindi, il «più inglese») nel 1908 Rolfe-?Baron Corvo’. La scrittura garbata e affabile di Norwich non ha paura dell’aneddotica, anzi, la cerca, ne restituisce i fondamenti, ne ricompone i fili. Come nascono gli stereotipi, su che poggiano i luoghi comuni? Anche qualcuno dei veneziani sugli inglesi (solitarie avanguardie dei foresti e dei milioni di turisti da passo odierni). I quali in sostanza amano Venezia e ignorano i veneziani, a meno che non siano gondolieri, giovani e bellocci, scelti e mantenuti per essere adibiti a duplici funzioni. Questi partner locali di una disinibita sessualità esotica hanno qui nome e cognome, escono dai sussurri. Un altro dei pochi abitanti con nome è Angelo Mengaldo, che nel 1818 compete vanamente a nuoto con Byron: 14 camerieri, un serraglio, 200 amanti. Partono dal Lido e quando arrivano alla Salute Byron ha già 400 metri di vantaggio, si fa per conto suo tutto il Canal Grande e in più ? assicura ? una donna prima e una dopo quella vigorosa nuotata. Del resto, navigava a nuoto verso casa anche al termine delle serate a palazzo Albrizzi. Mengaldo lo si ritrova nel par. 6 (Rivoluzione, 1848-49) quando l’autore ci ricorda che intanto i veneziani esistevano anche in proprio, non solo come sfondo e folclore. Di queste cose qui ? la politica, l’Austria, l’Italia ? poco o nulla interessa ai nostri esteti. E questa idea di Venezia bella e cara, adottata dal mondo innamorato che meglio se ne prenderebbe cura se non ci fossero gli indigeni, è un atteggiamento di lunga durata che il libro ci aiuta a scorgere come prenda piede, e che incide ancora.

Mario Isnenghi