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Jutta Toelle – Oper als Geschäft. Impresari an italienischen Opernhäusern 1860-1900 – 2007

Jutta Toelle
Kassel, Bärenreiter, 269 pp., Euro 34,95

Anno di pubblicazione: 2007

L’opera come business. Impresari nei teatri d’opera italiani 1860-1900: così può essere tradotto il titolo del bel volume di Jutta Toelle, scritto purtroppo in una lingua, il tedesco, che non permetterà a molti dei potenziali lettori di accedervi. Il libro, alla cui base stanno la tesi di dottorato dell’a. e un lungo lavoro di ricerca svolto in Italia, è frutto maturo della recente fioritura degli studi sulla storia del teatro musicale, letto non più e non solo come fenomeno strettamente musicologico, bensì anche come interrelazione di fatti culturali, sociologici ed economici.Sugli impresari in quanto produttori del melodramma italiano del XIX secolo la ricerca è dal 1985 ferma al pionieristico L’impresario d’opera. Arte e affari nel teatro musicale italiano dell’Ottocento di John Rosselli. Da qui prendendo le mosse, ma presto segnalandosi per originalità, l’a. delinea profilo sociale, funzioni, diritti e doveri, spese e ricavi dell’impresario-tipo, seguendone le sorti attraverso la crisi dell’industria lirica. Quest’ultima è indagata a fondo nei fattori scatenanti – che originano nella decisione del nuovo Stato di trasferire le competenze amministrative e finanziarie sui teatri dal demanio alle municipalità e nella rinuncia a esercitare una politica teatrale centrale -, nelle implicazioni e nelle conseguenze che ebbe sui due fronti degli impresari e dei teatri, allorché il finanziamento della più costosa e complessa di tutte le forme artistiche divenne questione scottante.Gli impresari assistono a un ineluttabile ridursi del proprio spazio di azione e, vittime designate, sono ingoiati nell’abisso che sempre più ampio si spalanca per l’attrazione esercitata in due direzioni opposte dai poli dell’arte e del denaro. Cinque casi di impresari di successo (Piontelli e i fratelli Marzi e Corti) mettono in luce come, nella seconda metà del secolo, essi debbano fronteggiare un aumento dei costi di produzione e della complessità del sistema lirico (aggravato dallo strapotere degli editori musicali e dall’accesa rivalità tra Ricordi e Sonzogno), senza che sia loro possibile esercitare valide misure di riduzione del rischio.I tre casi settentrionali Milano/Scala, Parma/Regio, Venezia/Fenice dimostrano invece che, nonostante le peculiarità locali, la sopravvivenza alla crisi di fine secolo da parte dei grandi teatri lirici fu resa possibile da una strategia comune, riassumibile nell’identificazione tra teatro e città e nel ricorso al finanziamento cittadino (pubblico e privato) – strategia che sfocerà nel profilarsi dei teatri d’opera come luoghi simbolo dell’orgoglio locale, sganciati da logiche commerciali, assurti a musei e a strumenti della politica cittadina.A tali conclusioni l’a. arriva attraverso uno scavo capillare all’interno degli archivi dei teatri studiati, affiancato da sagaci prelievi in altre istituzioni conservative, da molte pubblicazioni coeve e da una letteratura ampia e aggiornata: la pazienza nella ricerca d’archivio si salda mirabilmente all’abilità nel fare parlare di arte, soldi e politica documenti amministrativi e contabili non sempre di immediata interpretazione.

Livia Cavaglieri