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La battaglia di Bretton Woods. John Maynard Keynes, Harry Dexter White e la nascita di un nuovo ordine mondiale

Benn Steil
Roma, Donzelli, 408 pp., € 38,00 (ed. or. Princeton, 2010, ed. it. a cura di Ada Becchi)

Anno di pubblicazione: 2015

Il libro narra dell’incontro-scontro tra Harry Dexter White e John Maynard Keynes, i due economisti che guidarono, rispettivamente, le delegazioni statunitense e britanni- ca alla conferenza monetaria internazionale di Bretton Woods del 1944. Nel recensire l’edizione italiana del volume, è necessario anzitutto segnalare l’inadeguatezza della tra- duzione: basti qui citare che l’inglese liberal è reso con «liberista» (p. 28) e che, nella frase illustrativa del nucleo concettuale del volume, il soggetto è arbitrariamente identificato con White, mentre dall’originale risulta con chiarezza essere il primo ministro britannico Churchill (p. 9). Si tratta di errori sui quali è difficile sorvolare in un volume il cui og- getto è proprio il confronto tra liberisti e liberal sul piano dottrinario e tra statunitensi e britannici sul piano geopolitico.
Nel merito, poi, l’acclamato saggio di Steil ribadisce una tesi poco originale: a Bret- ton Woods vi fu una sostanziale convergenza tra statunitensi e britannici nella volontà di ordinare l’economia internazionale secondo la lezione keynesiana, accompagnata da una altrettanto sostanziale divergenza su quei temi più direttamente collegati alla distribuzio- ne del potere internazionale (ruolo dell’oro, emissione della valuta di riserva, potere di voto nel Fmi). Qui, nonostante il prestigio di Keynes, White prevalse per il semplice fatto che gli Stati Uniti disponevano di tutte le carte del mazzo. Fatta eccezione per la descrizio- ne particolareggiata dell’albergo che ospitò i lavori, non vi è davvero molto di innovativo rispetto a ciò che si può trovare su un manuale di storia internazionale stampato negli ultimi trent’anni. Sul piano strettamente metodologico è opportuno, peraltro, segnalare che l’a. non trova utile confrontarsi con l’enorme bibliografia sull’argomento affrontato. Ancora più problematica è la parte del volume dedicata a ricostruire il rapporto tra White e l’Unione Sovietica: se lavori recenti hanno indicato in White un importante informatore di Mosca, l’a. ha potuto rintracciare anche un appunto privato dell’econo- mista, che esprimeva ammirazione per il sistema economico sovietico. Si tratta, in questo caso, di un elemento di novità che avrebbe potuto essere sviluppato nel senso di meglio definire i contorni della fascinazione di una parte dell’establishment liberal statunitense per l’economia pianificata negli anni del New Deal. L’a. segue invece una strada assai più ambigua: quell’unico appunto è infatti usato per far filtrare, tra le righe, l’ipotesi che la penalizzazione delle aspettative britanniche a Bretton Woods sia stata il frutto di una mac- chinazione sovietica, volta a allontanare Washington da Londra. Come lo stesso a. ripete più volte, in realtà, le posizioni di White erano assolutamente in linea con gli orientamen- ti dell’amministrazione Roosevelt (e, su varie questioni, persino con quelli di Wall Street). In epoca postmoderna, tuttavia, la crime story vende bene e l’a., che non è uno storico di professione ma un ricercatore del Council on Foreign Relations, sa usare le parole in modo
sufficientemente tendenzioso da renderla intrigante.

Duccio Basosi