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La capitale immaginata. L’evoluzione di Bucarest nella fase di costruzione e consolidamento dello Stato nazionale romeno (1830-1940)

Emanuela Costantini
Soveria Mannelli, Rubbettino, 260 pp., € 16,00

Anno di pubblicazione: 2016

L’evoluzione di Bucarest quale capitale dello Stato romeno è al centro dell’affascinante
narrazione di Costantini, che coniuga aspetti di storia politica e culturale con
un’attenzione volta ai cambiamenti urbanistici e architettonici di quella che, nel corso
dell’800, divenne – secondo un’immagine dalla grande fortuna storiografica – la «piccola
Parigi dei Balcani».
Il nodo principale affrontato dall’a. riguarda lo sviluppo della capitale romena all’interno
del processo di formazione dello Stato nazionale, secondo la dinamica, tratteggiata
da Benedict Anderson, di costruzione delle nazioni come «comunità immaginate», evocata
dal titolo. Quale il ruolo giocato dalle città capitali in tale processo è un aspetto che
la storiografia ha analizzato ancora poco e che pure riguarda molti degli Stati nazionali
scaturiti dai vari Risorgimenti europei, soprattutto nell’area sud-orientale. Come rileva
l’a., «la scelta della città capitale e la sua trasformazione sono aspetti essenziali per comprendere
i modelli di riferimento politici e culturali della classe politica al potere negli
Stati nazionali al momento della loro nascita e nei loro primi decenni di esistenza», p. 10).
In questo senso, non conta solo la «scelta» della capitale, ma anche – e forse soprattutto
– la sua «costruzione». Tale discorso vale per Atene, come per Sofia o Belgrado. Ciò che
rende il caso di Bucarest particolare è il fatto che il passaggio da città quasi ottomana a città
europea, da capoluogo regionale a capitale cominciò prima della nascita vera e propria
dello Stato unitario e autonomo. Tale circostanza spiega l’anticipazione del termine a quo
al 1830, l’anno in cui fu avviato il processo di emancipazione dei principati di Moldavia
e Valacchia dall’Impero ottomano. Al momento dell’indipendenza, Bucarest era una capitale
«quasi predestinata» (p. 84).
L’a. mette in luce come i riferimenti culturali di tale costruzione siano stati tutt’altro
che univoci: da una parte, la latinità, che gettava un ponte con l’Occidente e la cultura
francese (veicolata però inizialmente dagli ufficiali russi che occuparono ripetutamente
porzioni del territorio romeno); dall’altra, la tradizione orientale, di cui l’ortodossia
costituiva un polo ineludibile. Forse una maggiore considerazione del fattore ortodosso
avrebbe ulteriormente arricchito la riflessione sviluppata dall’a. Si pensi, ad esempio, al
pensiero di Nicolae Iorga (che pure viene citato nel volume, ma in altro contesto) sull’ortodossia
romena come Byzance après Byzance e all’influsso che tale concezione esercitò
sulla cultura nazionale.
Interessanti le pagine dedicate agli stili architettonici impiegati nella costruzione
della capitale: il neoclassico, ad affermare l’appartenenza europea, contrapposto allo stile
neoromeno o nazionale, laddove quest’ultimo è in gran parte frutto dell’«invenzione della
tradizione»; un’oscillazione, quella tra romenità e occidentalizzazione, che costituisce il
filo rosso dell’intera narrazione.

 Simona Merlo