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La minaccia stupefacente. Storia politica della droga in Italia

Paolo Nencini
il Mulino, 360 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2017

Paolo Nencini è un farmacologo, ma il suo libro è un libro di storia che ricostruisce la genesi e la diffusione degli oppiacei nell’Europa del XIX secolo e racconta come in Italia, durante la guerra dell’oppio, si inizi, per ragioni diplomatiche a occuparsi del problema droga. Per decenni dopo l’Unità si pensa che nel nostro paese «non esisteva un consumo voluttuario e che quindi le proprie iniziative politico-diplomatiche erano mosse solo da motivazioni etiche generali. Questo approccio continuerà a essere manifestato pubblicamente anche quando, a partire dalla Grande guerra, tale consumo, soprattutto quello della cocaina, prenderà piede in maniera da allarmare sanitari e politici» (p. 129).
Atteggiamento comprensibile secondo l’a., poiché il problema della droga fra ’800 e ’900 è frutto di un sentito dire, mentre più grave è il problema dell’alcolismo. Se ne occupano, per esempio, Lombroso nel 1880, e Colajanni nel 1886.
Il «più formidabile dei veleni sociali», secondo il farmacologo Giusto Coronedi, si diffonde nei primi decenni del ’900, fonte ne sono i ricoveri manicomiali per «frenosi alcolica». Stigma della miseria, l’alcolismo diventa la malattia della classe operaia. Morfina e cocaina iniziano a diffondersi in Italia durante la Grande guerra, tuttavia questa epidemia «non è sorta nelle trincee, ma si è iniziata alla periferia, nei grandi centri, ove i bagordi e il piacere dilagavano» (p. 211) – scrive il neuropsichiatra Ferdinando Cazzamalli nel 1923, e Antonio Gramsci osserva: «L’uso della cocaina è indice del progresso borghese: il capitalismo si evolve. Costituisce categorie di persone completamente irresponsabili, senza preoccupazioni per il domani, senza fastidi e scrupoli (1918)» (p. 212). In questo clima viene promulgata la legge del 1923, che seguita dal Testo unico di Pubblica Sicurezza, vede nel drogato (per alcool o stupefacenti) un soggetto pericoloso paragonabile ai malati di mente e come tale internabile se non in manicomio almeno in carcere. Ai medici l’obbligo di denunciare chi si rivolge loro.
Sarà la mafia italo-americana dopo il 1945 a trasformare l’Italia in luogo di smercio e passaggio, ma non di consumo. Nencini affronta lo scenario che fa da sfondo alla nuova legge sulle dipendenze del 1954 che inasprisce le pene. Secondo Luigi Cancrini un approccio inutile se non dannoso negli anni nei quali il consumo di eroina esplode in Italia non soltanto come piacere raffinato, ma come sintomo di crisi sociale.
Lo sguardo clinico rende questo volume particolarmente rilevante per inquadrare il discorso sulle dipendenze in una prospettiva di lungo periodo: all’alcolismo prima, poi alla tossicodipendenza si applica il concetto di degenerazione così come formulato dal neurologo francese Auguste Morel e tradotto in Italia da Lombroso: una stimmate ereditaria che porta le famiglie coinvolte nel «decadimento della specie». Un’impronta deterministica che si riflette sulla concezione sociale della dipendenza e che ancora oggi definisce il discorso pubblico sulle droghe, rendendo tabù la questione dell’uso di stupefacenti spesso anche da parte degli storici.

Vanessa Roghi