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La passione dell’Eurasia. Storia e civiltà in Lev Gumilëv

Dario Citati
Introduzione di Adriano Roccucci, Milano-Udine, Mimesis, 2015, 442 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2016

Storico, archeologo, etnologo, geografo e filosofo, dopo una vita quasi perfettamente
coincidente con quella dell’Urss, Lev Gumilëv (1912-1992) ha conosciuto nell’ultimo
quarto di secolo una notevole fama politico-mediatica, sia nella nuova Federazione russa
sia in Asia centrale, in Kazakistan e in Kirghizistan.
Prolifico autore di opere spesso concepite nelle carceri e nei campi di concentramento
del regime, dopo un’esistenza passata a scontare la colpa di essere figlio di un intellettuale
monarchico fucilato nel 1921 e della poetessa Anna Achmatova, oggi egli viene
apprezzato per la sua rivalutazione del ruolo dei popoli turco-mongoli nella formazione
dell’identità nazionale russa e, contemporaneamente, per le sue critiche all’eurocentrismo
occidentale e a ogni visione unilineare della storia. In realtà, nell’epoca dell’invenzione
della tradizione, delle comunità immaginate e della global history, la sua attenzione per i
popoli nomadi dell’Eurasia, grandi creatori di imperi, non contraddice le nuove passioni
della storiografia occidentale. Ma la cultura di massa russa e quella centro-asiatica preferiscono
evidenziare in lui il (parziale) continuatore delle teorie eurasiste, il difensore dei
popoli della steppa dall’aggressività di quelli occidentali, il combattivo anti-illuminista e
antisemita, sottolineando così i suoi caratteri più direttamente ereditati dal chiuso ambiente
della tarda età sovietica.
L’a. di questo ricco volume mostra un eccezionale controllo di temi assai sparsi e
affronta con sicurezza i molti problemi della biografia, dell’opera e della fortuna di Gumilëv,
concentrandosi soprattutto sulla sua complessa «teoria passionaria dell’etnogenesi»,
che sarebbe stato bello poter confrontare anche con le vicende intellettuali della contemporanea
etnografia sovietica e con le diverse ondate della politica delle nazionalità del regime,
uno sfondo che egli ha invece scelto di accantonare «per non estendere ulteriormente
uno spettro tematico già molto vasto» (p. 41).
Il contesto in cui l’a. inserisce l’opera di Gumilëv è invece principalmente quello
della storia delle teorie eurasiatiche. Non solo viene loro dedicato un corposo capitolo
introduttivo, ma in tutta l’opera esse costituiscono lo sfondo di interessanti e raffinate
comparazioni, per altro utili anche a sfatare alcuni diffusi miti culturali postsovietici. Uno
dei punti di forza del discorso di Gumilëv è, infatti, la sua disponibilità a accettare che
persino le etnie siano in definitiva autocostruzioni simboliche, quindi storiche, e che non
esista nessun «segno reale» (p. 230) in grado di determinarle in quanto tali: né legame
biologico, né lingua, né organizzazione sociale.
Nel complesso, questo volume è un buon punto di osservazione per seguire le contorsioni
intellettuali di un mondo postimperiale e postsovietico che fatica a confrontarsi
con le proprie diverse identità nazionali.

Antonello Venturi