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La Prima Repubblica. (1946-1993). Storia di una democrazia difficile

Giuseppe Bedeschi
Soveria Mannelli, Rubbettino, 350 pp., € 19,00

Anno di pubblicazione: 2013

L’a. non ha bisogno di presentazioni: storico della filosofia, autore di lavori fondamentali sul liberalismo e di un’imprescindibile storia del pensiero politico italiano del ’900 (La fabbrica delle ideologie. Il pensiero politico italiano del Novecento, Laterza, 2002). Egli si misura qui in una storia dell’Italia repubblicana dalle origini al 1993. Data la sua formazione scientifica e i suoi campi di studi, ci si aspetterebbe un lavoro indirizzato verso i conflitti politico-culturali. Niente di tutto questo, perché l’a, per esplicita scelta, adotta un taglio molto classico di storia politica, anche se qualche apertura nel senso delle ideologie non manca. La stessa scansione dei capitoli rimanda a una periodizzazione legata ai diversi cicli politici. Quanto alle fonti, trattandosi di un lavoro di sintesi e di carattere interpretativo, esso si regge eminentemente sulla letteratura secondaria. Dal punto di vista delle sintesi, il risultato è già decisamente apprezzabile: non è semplice, in poco più di trecento pagine, dipanare la vicenda anche solo politica di mezzo secolo del nostro paese, coglierne i momenti di svolta essenziali e mostrare il sovrapporsi delle differenti evoluzioni (e involuzioni), per di più con un linguaggio cristallino: lo si consiglierebbe volentieri a chi dovesse cimentarsi in un primo screening di letture su questo argomento. È evidente però che a Bedeschi interessa sostenere una tesi, che si coglie tra le righe ma che poi viene esplicitata nel capitolo finale, non a caso intitolato Uno sguardo retrospettivo. La prima Repubblica è stata una «democrazia bloccata» per l’impossibilità dell’alternanza causata dalla presenza del maggior partito comunista occidentale; la cultura politica prevalente fu «statalista», non solo ovviamente nel Pci e nel Psi ma anche nella Dc. Nel paese vi dominò non la dialettica tra i partiti, come in tutte le democrazie liberali occidentali, ma un’autentica partitocrazia, che ha contribuito a rafforzare una società corporativa e ha aumentato a dismisura i fattori di corruzione, politica e no, e di inefficienza. Infine, dal punto di vista culturale, ha prevalso per decenni un paradigma da «guerra civile ideologico-politica» che ha diviso non solo le élite culturali ma anche le classi politiche e gli stessi italiani.
Sono considerazioni, tutte condivisibili, che fino a qualche anno fa appartenevano a una tradizione piuttosto minoritaria della cultura politica italiana, che si può definire liberale, e che oggi, anche di fronte alle dure repliche della storia, sono fortunatamente diventate moneta più comune. Ma allora sorgono due questioni, squisitamente metodologiche. La prima: il percorso della prima Repubblica era una gabbia d’acciaio destinale, non modificabile perché determinata da leggi troppo forti? Probabilmente no: gli errori, le sottovalutazioni, gli abbagli, le illusioni degli attori politici, anche di primo piano, hanno portato la Repubblica a essere quella che era. Ricostruire queste vie mancate resta un buon terreno di esercizio per lo storico.

Marco Gervasoni