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Le lingue estere. Storia, linguistica e ideologia nell’Italia fascista

Valentina Russo
prefazioni di Norbert Dittmar e Alberto Manco, Roma, Aracne, 349 pp., € 22,00

Anno di pubblicazione: 2013

«Le lingue estere» (dopo il 1945 «Le lingue del mondo») fu una rivista pubblicata tra il 1935 e il 1950 con l’intento, raro in Italia, di operare nell’ambito della divulgazione linguistica e della glottodidattica. Ne fu fondatore e direttore Bruno Galzigna, una singolare figura di docente di lingue proveniente dalla piccola comunità italiana di Rab, oggi in Croazia.
Dovendo operare in un contesto, quello dell’Italia fascista, non certo favorevole alla diffusione delle «lingue estere», la chiave che si utilizza per aggirare le restrizioni politico-ideologiche è quella dell’«utilità strumentale»: studiare le «lingue estere», cioè, per scopi personali, come trovare un buon lavoro, fare carriera, progredire socialmente. Può costituire inoltre un vantaggio per la propaganda: l’italiano che viaggia all’estero diventa un «faro di italianità».
Per autolegittimarsi la rivista diffonde dei «miti di fondazione». Il duce sarebbe un poliglotta esperto. Nell’articolo del 1935 Mussolini dà l’esempio si racconta che in un incontro con Chamberlain egli avrebbe lasciato all’interlocutore la scelta della lingua di conversazione, potendo indifferentemente esprimersi in inglese, in francese e in tedesco. L’esempio del duce ricorda che l’apprendimento delle lingue è «arma potentissima per il vittorioso conseguimento [di] scopi pratici» (p. 47, n. 24).
Più ci si avvicina agli anni dell’Asse e della guerra, maggiore diventa l’interesse verso una glottodidattica aggiornata del tedesco. Il direttore Galzigna vi contribuirà con un manuale di autoapprendimento di buon successo, Vado in Germania e conosco il tedesco, riedito anche dopo la guerra in prospettiva totalmente diversa, quando l’autodidatta-tipo non sarà più il viaggiatore «faro di italianità» ma l’emigrato delle regioni meridionali.
Sulle «Lingue estere» il libro è del tutto esauriente; sul contesto linguistico-ideologico, pur promesso dal sottotitolo, invece si dice poco. Ad esempio fanno parte del quadro, e danno l’idea dell’ambiente ostile in cui Galzigna e colleghi si muovono, il decreto che prevede imposta quadrupla per l’uso di parole straniere in un’insegna commerciale (d. 11.2.1923, n. 352) e che nel 1937 si impenna dal quadruplo a 25 volte (d. 9.9.1937, n. 1937); i decreti che vietano l’uso di foriesterismi per i locali di pubblico spettacolo (d. 5.12.1938, n. 2178) e di nomi stranieri per i neonati di cittadinanza italiana (d. 9.7.1939, n. 1238); la legge che proibisce foriesterismi nelle intestazioni di attività commerciali, industriali e professionali (l. 23.12.1940, n. 2042). Circa la riforma Bottai, che pure è determinante per il quadro delle esigenze glottodidattiche, rimangono nel lettore varie curiosità che bisognerà soddisfare altrove. In due passi si afferma (p. 47 n. 25 e p. 183) che la riforma Bottai fa scomparire le lingue, tedesco compreso, dai programmi scolastici, ma a p. 166, n. 10, citando letteralmente la Carta della scuola si dice che «lo studio della lingua straniera deve essere prevalentemente ispirato a carattere di praticità». Si rimane con la curiosità di sciogliere la contraddizione.

Stefano Rapisarda