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L’internazionalismo difficile. La «diplomazia» del Pci e il Medio Oriente dalla crisi petrolifera alla caduta del muro di Berlino (1973-1989)

Luca Riccardi
Soveria Mannelli, Rubbettino, 756 pp., € 28,00

Anno di pubblicazione: 2013

Il libro è un tentativo (riuscito) di analizzare la posizione assunta dal Pci verso le vicende mediorientali come parte di un intreccio nel quale politica estera e interna si influenzavano di continuo. L’idea di fondo è che negli anni di Berlinguer «il progressivo distacco dal campo socialista», unitamente all’accordo di pace sul Vietnam, spingesse il Pci a interessarsi maggiormente delle realtà extraeuropee «emergenti» (pp. 21-22).
Mi è impossibile, in una così breve recensione, dare conto di tutti gli snodi affrontati nel volume. Mi limito ad accennare a come l’a. tenga sempre in considerazione la pluralità degli attori presenti in ogni singolo paese con cui il Pci entrava in contatto, inclusi gli Stati in cui i partiti comunisti erano «illegali o dissolti» (p. 52). Non mancarono le difficoltà di lettura da parte del Pci. Non fu compreso, ad esempio, il ruolo della Siria durante la guerra civile in Libano; ne derivarono forti tensioni specie dopo la strage di Tel al-Zaatar, nel 1976. Si registrò una difficoltà di messa a fuoco anche del ritorno di Khomeini in Iran, allorché gli osservatori del Pci insistettero molto sulla fine di un regime filo-occidentale. Sin dall’inizio, infatti, si cercò di mettere in evidenza la natura sociale e non religiosa del movimento. O quantomeno, la subordinazione di quest’ultima alla dimensione «politica» (p. 277). Pagine importanti sono dedicate al conflitto israelo-palestinese. I comunisti italiani erano infatti legati all’Olp, il cui isolamento fu in alcune fasi il loro «cruccio principale» (p. 250), e al contempo interessati alla vicenda politica israeliana, non solo per i rapporti (ovviamente di differente portata), coi comunisti (Rakah e Maki), ma anche per la continua valutazione della variabile del Mapam. Vi furono momenti particolarmente drammatici nella storia del partito nei primi anni ’80, quando, specie dopo il drammatico attacco alla sinagoga di Roma, il Pci venne considerato da parte del mondo ebraico italiano una fucina di sentimenti antisemiti.
Negli ultimi anni, gli studi sui nessi tra politica italiana e dibattito sul Medio Oriente hanno fatto passi notevoli, basti pensare al volume di Schwarz e Marzano, anch’esso edito nel 2013 (recensito in questo stesso fascicolo del «Mestiere di storico»), o a un altro contributo dello stesso Riccardi sul periodo precedente, dato alle stampe nel 2006. A me pare che un aspetto particolarmente interessante di questo testo sia l’elaborazione di una rete di contatti, di una metodologia conoscitiva. L’a. infatti racconta di viaggi, di delegazioni appositamente create, di partecipazioni a conferenze internazionali o di conferenze organizzate ad hoc, di interventi di giornalisti de «l’Unità» particolarmente preparati sulle vicende di un determinato contesto geopolitico, di contatti con esponenti politici di altri paesi presenti in Italia. Al di là dell’oggetto di queste iniziative, insomma, il libro offre interessanti spunti di riflessione anche sulle dinamiche interne a un grande partito di massa.

Matteo Di Figlia