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L’invenzione del calabrese. Intellettuali e falsa coscienza

Giovanni Sole
Mannelli, Rubbettino, 236 pp., € 15,00

Anno di pubblicazione: 2015

In tempi in cui il mercato editoriale e, quindi, il senso comune sulla storia del Mezzogiorno
sono appannaggio di ricostruzioni approssimative e sensazionalistiche, di matrice
giornalistica più che storiografica, questo libro risulta utile oltre che interessante.
Il volume si presenta come un pamphlet di storia della mentalità, dell’immaginario
collettivo costruito dagli intellettuali e dagli eruditi calabresi nel corso di secoli. L’intervallo
cronologico di analisi va sostanzialmente dall’inizio dell’età moderna alla fine dell’800,
anche se non mancano riferimenti a fonti più recenti, come le riflessioni dello scrittore
Leonida Rèpaci o le posizioni di una delle riviste più importanti del meridionalismo degli
anni ’70, «Quaderni Calabresi», attorno a cui gravitavano antropologi e storici accademici.
Entrambi sono portati ad esempio dei «molti», che, «pur prendendo le distanze del
fenomeno mafioso», hanno contribuito «ad alimentare lo stereotipo dello ’ndranghetista
costretto dalla dura vita a scegliere la via del crimine senza tuttavia abbandonare il senso
dell’onore, della famiglia, dell’amicizia e della religione» (p. 24).
Nella parte iniziale del volume l’a. passa in rassegna alcune narrazioni caratterizzanti
l’immagine del calabrese nel tempo: la virilità degli antichi Bruzi, il patriottismo
dei briganti e l’ospitalità. Questi stereotipi vengono decostruiti sinteticamente, facendo
riferimento alla letteratura di viaggio e ai proverbi, allo sguardo dell’osservatore esterno
e alle fonti folkloriche. Ma la parte più corposa è incentrata sull’analisi del ruolo e delle
ripercussioni di un «pensiero vittimista, pazientemente coltivato e divulgato dagli intellettuali
», che «ha finito per celare ai calabresi la potenzialità di cui dispongono per mutare
la propria condizione e ha offerto ai gruppi dominanti una buona coscienza fondata sul
mascheramento della realtà» (p. 77).
Tale «buona coscienza» per l’a. è La falsa coscienza (titolo del capitolo conclusivo del
libro), che gli studiosi odierni dovrebbero contribuire ad analizzare e demistificare soprattutto
nella parte riguardante la ricostruzione dei fatti storici. Come esempio di «una storia
semplicistica e superficiale, fondata su teoremi banali e facilmente comprensibili» (p. 179)
viene portato il caso delle vicende che hanno riguardato la Calabria (e potremmo estendere
il discorso al Mezzogiorno) prima e dopo l’Unità d’Italia. Condivisibile l’intenzione di
sottoporre a severa critica l’«assunto che ha unito e unisce letterati di formazione culturale
e generazioni diverse»: «durante il regno borbonico i calabresi non vivevano male» (p.
180). Manca però qualsiasi tipo di riferimento al recente dibattito storiografico su questi
temi nella dimensione meridionale (senza pretese di esaustività: le opere di Renata De
Lorenzo, Salvatore Lupo, Paolo Macry, Paolo Malanima e Vittorio Daniele), che avrebbe
fornito maggiore complessità alla lettura proposta.

Luigi Ambrosi