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L’Olivetti dell’Ingegnere (1978-1996)

Paolo Bricco
Bologna, il Mulino, 426 pp., € 20,00

Anno di pubblicazione: 2014

Nel leggere questo libro la prima cosa che vale la pena considerare è l’arco temporale che abbraccia, un ventennio di «grande trasformazione» (nell’accezione polanyana)
dell’industria manifatturiera in Italia, ma anche della sua progressiva ritirata, con le ricadute sociali, culturali e politiche di una tale perdita di peso della manifattura.
La storia d’impresa che ci è proposta, relativamente a questo processo, offre elementi
di interpretazione interessanti. L’impresa è la Olivetti, forse l’azienda su cui in Italia si
è scritto di più, ma non in relazione a questo periodo; l’ingegnere è il molto discusso e
controdiscusso Carlo De Benedetti; l’a. è una firma nota de «Il sole 24ore», ma questo
non è un libro di taglio giornalistico: è il risultato – come del resto il precedente saggio
dedicato nel 2005 all’eredità adrianea – di una ricerca d’archivio approfondita e originale,
e dell’accesso alle carte e alla testimonianza dello stesso De Benedetti: il titolo quindi va
preso in una certa misura anche alla lettera.
Il volume ricostruisce in estremo dettaglio la parabola olivettiana del ventennio che
va dal rilancio di quella che era stata (per altrettanto tempo) un’impresa senza imprenditore (e che un imprenditore alla fine degli anni ’70 lo trova), all’apogeo del riorientamento sull’elettronica da tavolo con il suo suggello nel lancio dell’M20 e dell’M24 (1982
e 1984), fino alla crisi degli anni ’90, alle alleanze internazionali fallite, alla scalata alla
Société Génerale de Bélgique fallita nondimeno, all’uscita di De Benedetti nel 1996,
passando per l’avventura della Omnitel nella telefonia mobile, che suggella la traiettoria
secolare dell’impresa di Ivrea dalla meccanica fine al mondo postindustriale.
Questo libro offre una grande quantità di elementi per leggere il passaggio di fine
’900 nell’ottica della business history: un insieme di dirompenti innovazioni gestionali
e organizzative che hanno avuto come stimolo una più intensa pressione competitiva
e che sono state rese praticabili dall’affermarsi delle nuove tecnologie dell’Itc. Questo
processo avviene mentre cadono le barriere all’investimento internazionale, si fa più forte
il bisogno di migliorare la performance, la finanza assume un peso inedito, cambiando i
connotati delle vecchie poliarchie (di particolare interesse è il capitolo quarto sull’interlocuzione privilegiata tra De Benedetti e il Pci, pp. 187 ss.). Allo stesso tempo si registra
una ridefinizione profonda della managerialità e delle culture manageriali, sottratte alla
neutralità tecnocratica precedente, avvicinate alla logica proprietaria dai nuovi sistemi di
incentivi, fattesi intercambiabili (nell’ultimo capitolo si possono vedere su questo i paragrafi dedicati al passaggio in Olivetti di Corrado Passera e di Francesco Caio).
Quello di cui si sente la mancanza è semmai proprio una mappa delle connessioni e
disconnessioni tra la vicenda Olivetti e questi macroimpulsi, o anche di un accenno agli
«isomorfismi» più rilevanti, ossia il fenomeno per cui le grandi imprese, e in generale le
grandi organizzazioni, iniziano nello stesso tempo a rispondere a pressioni coercitive e
normative simili in modo simile

Roberta Garruccio