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Luigi Lotti (a cura di) – Il socialismo fiorentino dalla liberazione alla crisi dei partiti (1944-1994) – 2008

Luigi Lotti (a cura di)
Firenze, Polistampa, 204 pp., euro 16,00

Anno di pubblicazione: 2008

Il volume, dedicato a Lelio Lagorio, ricorda mezzo secolo di socialismo a Firenze ma la quarta di copertina avverte: «non è storia locale». In realtà, Lotti, col Psi nella politica nazionale, Massimo Cardini, che guarda agli anni della rinascita dalle pagine de «La Difesa», Donatella Cherubini con alcuni puntuali Profili biografici di figure istituzionali del Psi e Lagorio con le sue Testimonianze, fanno luce su un mondo con un obiettivo subito chiaro: «la memoria è salvadanaio dello spirito. Conviene ricordare» (p. 9). Ed è vero. Si dà ormai per verificata un’equazione spuria per cui, se dici partito socialista, parli di malaffare, ma il socialismo che emerge dal libro si nutre di «valori alti»: Salvemini, il «Non Mollare», Rosselli e quel Calamandrei che lascia «una forte impronta etica nella cultura politica italiana» (p. 95). Una storia esemplare, che ci affranca dal peso di vecchie condanne e attesta che il fascismo non fu «l’autobiografia di una nazione», come pensava Gobetti, e l’Italia non è solo quella del «consenso» descritta da De Felice o del «bestiame votante» cui fa appello il populismo berlusconiano.Le pagine sulla guerra, la resistenza al fascismo e la ripresa socialista dal ’45 al ’57, i profili della Cherubini su Jaurés, Busoni, Gaetano Pieraccini e Codignola, che conduce a Calogero, Capitini ed Arfè ? la dignità della politica, quindi, non solo il socialismo fiorentino ? rimandano a un’altra Italia, al volto nobile del riformismo, a un’acuta sensibilità etica e all’alto profilo dello scontro con la degenerazione craxiana, da cui deriva in fondo l’attuale crisi della politica. Lotti e Lagorio, però, che ricordano con giustificato orgoglio la battaglia autonomista, lo «strappo» del ’56 e l’approdo al Psi di uomini del valore di Antonio Giolitti, lasciano in ombra l’uscita di Arfè e dello stesso Giolitti dal partito di Craxi. E qui non tutto convince. Certo, la disintegrazione dell’Urss si può leggere anche come vittoria postuma di Turati che «aveva ragione e aveva vinto», mentre perdevano «Lenin e i suoi discepoli italiani» (p. 182), ma il Psi di Craxi non era più il partito di Turati. A Firenze, Giorgio Morales, che la Cherubini ricorda unico sindaco «di una grande città a concludere il mandato dopo [?] tangentopoli e la dissoluzione del Psi» (p. 104), giunse a proporre di rendere a Giovanni Gentile «il posto che gli spetta nella cultura italiana», intestandogli una via. Era l’estate del ’91, Tangentopoli non era esplosa, ma il Psi era irriconoscibile e non a caso Gaetano Arfè se n’era andato. La fine del Partito socialista non derivò, come scrive Lagorio, da «un terrificante terremoto giudiziario» (pp. 182-183). La magistratura firmò solo l’atto di morte. Lotti, che descrive puntualmente gli effetti del decesso sul nostro sistema politico, non cerca le cause profonde del tracollo. Il problema dallo scioglimento del Psi non si riduce alle «carriere irrimediabilmente distrutte» (p.183). Il nodo è nella questione morale e nella crisi del sistema dei partiti. Il libro ne è la prova: sulle responsabilità della fine del Psi passione e militanza impediscono ancora una riflessione davvero serena.

Giuseppe Aragno