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Luisa Passerini – Sogno di Europa – 2009

Luisa Passerini
Torino, Rosenberg & Sellier, 125 pp., Euro 12,00

Anno di pubblicazione: 2009

Con questo volume, Luisa Passerini prosegue e arricchisce un percorso intellettuale che da anni la vede impegnata in una riflessione – particolare e originale – sulla «identità europea». Il lettore che ha familiarità con tale riflessione ritroverà in queste pagine diversi passaggi accennati o trattati più estesamente in opere precedenti, da Storie d’amore e d’Europa (Napoli, l’ancora del mediterraneo, 2008, si veda la recensione comparsa ne «Il Mestiere di storico», 2 [2009]), a Figures d’Europe – Images and Myths of Europe (Bern, Peter Lang, 2003) a Il mito di Europa. Radici antiche per nuovi simboli (Firenze, Giunti, 2002), solo per citarne alcune. Al lettore che abbia meno frequentato questa produzione e questi temi, il volume offre una lettura introduttiva agile, ma densa di stimoli, con un’essenziale bibliografia finale.I sei capitoli, che sono dei brevi saggi su «utopie» d’Europa nel corso del ‘900 e su figure di «europei» ed «europee» che nelle loro biografie le hanno in qualche modo personificate, sono percorsi da un doppio filo narrativo-storiografico. Da una parte, vi è la consapevolezza della necessità di una sorta di «rifondazione della retorica» nel discorso sull’identità europea (dunque anche nella costruzione dell’Europa comunitaria), che secondo l’a. dovrebbe passare anche attraverso il recupero e la valorizzazione del potere «emancipatorio» del mito, da intendersi (à la Habermas e à la Cassirer) come movimento di apertura «verso» il futuro e verso «l’altro». In questo senso, esso può contribuire a nuove definizioni di identità europea, rispetto a concezioni tradizionali, che storicamente sono state tutte basate, in qualche modo, su idee di superiorità della civiltà europea e di opposizione all’altro.Il secondo filo conduttore è quello dell’utopia, evidentemente e significativamente caro all’a., studiosa del ’68, dell’intreccio tra sfera pubblica e sfera privata, tra rapporti di genere e di coppia e coesione sociale. Proprio questa dimensione delle «utopie europeistiche» come «utopie laiche», di natura pattizia tra esseri umani che non hanno bisogno «di appellarsi a una divinità per fondare e garantire l’ordine sociale, politico e simbolico» (p. 9), consente di leggere in modo non convenzionale storie di uomini e donne (Marthe Bibesco, Ursula Hirschmann, Stefan Zweig, Frank Thompson, fratello dello storico Edward, e altri) che hanno declinato una certa «europeità» negli anni tra le due guerre mondiali, quando il ricorso a utopie europeistiche fu anche un tentativo di superare la crisi europea e andare «verso» visioni diverse di civiltà e di convivenza (da qui anche il continuo richiamo dell’a. a figure del cosmopolitismo ebraico) «che intendono il rinnovamento dell’Europa come un compito non soltanto politico e intellettuale, ma anche emozionale e simbolico, come una rigenerazione che tocca profondamente i singoli individui e i loro rapporti quotidiani» (p. 30). Che è appunto quanto, in un contesto storico completamente diverso, cercherà di fare il ’68, ai cui movimenti l’a. fa risalire l’avvio di nuove concezioni di appartenenza europea, di natura post-imperiale e anti-autoritaria.

Barbara Curli