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Luisa Tasca – Le vite e la storia. Autobiografie nell’Italia dell’Ottocento – 2010

Luisa Tasca
Bologna, il Mulino, 202 pp., Euro 17,00

Anno di pubblicazione: 2010

Bel tema, bel titolo, lavoro serio e scrupoloso. Tasca individua 194 testi autobiografici. Ci sono gli Orsini e i Settembrini – i grandi nomi -, ma il campione e l’a. privilegiano le mezze misure. «Mezze» perché tutti i testi considerati sono editi, hanno avuto la forza di arrivare alla stampa, 90 finché l’autore è vivo, 67 quando è già morto (incerta la data di 21). Fuori tiro, dunque, i presumibilmente innumerevoli inediti, tipo quelli che a centinaia all’anno arrivano all’Archivio diaristico di Pieve S. Stefano sotto l’egida di Saverio Tutino. Tasca intende mettere a fuoco Lo spettro del raccontabile (titolo del cap. 4) e si comprende la sua scelta: ogni testo entra in un gioco di relazioni, fanno parte e vengono a comporre uno spazio pubblico. Ciò che rimane sommerso è altra cosa. Certo, questo risulta catastrofico quando si va allora a quantificare la presenza femminile: 15 su 194, l’8,5 per cento (p. 86). Questo non inficia il presupposto che le donne dell’800 fossero non meno, semmai più inclini degli uomini a raccontarsi. Si vede che riusciva loro più difficile concepire e realizzare il passaggio dall’io inedito all’io edito. Ecco una delle volte – non poche – in cui la quantificazione descrive e aggiunge, ma non risolve. Quando legge i suoi personaggi – il professore, l’organaio, il vetraio – Tasca dimostra finezza e capacità di penetrazione; ma proviene da studi di storia economica e un approccio siffatto le deve apparire poco fondato, se non arbitrario; vuole «oggettivare», tradurre in numeri, quantificare. Apprendiamo la professione degli autobiografi e dei loro padri (p. 88); che «la media di vita coperta nelle autobiografie italiane dell’Ottocento è di 51 anni» (p. 123); che «L’età media alla quale si scrive è di 62 anni, ma quest’età tende a crescere nel corso del tempo» (ivi). Più ambiziosa l’applicazione dei metodi della network analysis per la definizione dello «”spazio sociale” dell’autobiografia» (p. 55) Ne derivano raffigurazioni puntigliose con i tracciati degli itinerari e delle reti di relazioni del latinista Tommaso Vallauri, dell’italianista Angelo De Gubernatis, dello scultore Giovanni Duprè, dell’editore Gasparo Barbèra; ed anche una ancora più complessa e intricata «Rete delle relazioni» di 175 fra gli autobiografi (pp. 64-66). Pagine elegantissime, miniature. Mi inchino. E però s’è dovuto a monte decidere – coi metodi tradizionali e scelte di interpretazione – l’oggetto stesso del discorso: che cosa sia autobiografia. La studiosa ha letto quel che c’era da leggere, non ignora certo «il ginepraio delle querelles definitorie» (p. 24); e decide che non le servono i pezzi, ma vite intere, la «biografia di una persona scritta da essa stessa»; e le memorie sarebbero un’altra cosa perché «non narrano la vita di una persona, bensì gli avvenimenti storici ai quali ha assistito o partecipato» (ivi). Le percentuali mostrano che il Risorgimento non è assente, ma l’asse preminente non è la politica, e neppure l’introspezione, la famiglia o la religione, ma la realizzazione del sé attraverso il lavoro; e spesso, anzi, la rivendicazione di una superiorità rispetto al «riconoscimento» raggiunto: uno dei motori, il «disatteso bisogno di fama» (p. 105), che innescano il bisogno di dire.

Mario Isnenghi