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L’utopia paternalistica sovietica e la realtà delle etnie. Ceceni e ingusci nell’esilio staliniano e dopo (1944-primi anni ’60)

Francesco Benvenuti, Vladimir Kozlov, Marina Kozlova
Roma, Aracne, 148 pp., € 10,00

Anno di pubblicazione: 2016

Basato su documenti inediti di grande interesse provenienti dagli archivi ex sovietici,
questa breve monografia ricostruisce in maniera nuova e puntuale per il pubblico italiano
il destino dei circa 450.000 ceceni e ingusci deportati tra il 1944 e il 1957 dalla loro terra
natìa nelle steppe e sulle montagne del Kazakistan e del Kirghizistan. Un’operazione pianificata
dall’establishment staliniano non solo per punire forme di collaborazionismo con
i tedeschi, che pur vi erano state negli anni della guerra, ma anche per liberare il Caucaso
settentrionale da popolazioni turbolente, colpevoli di non aver mai gradito l’occupazione
russa prima e quella sovietica poi.
Obiettivo del regime era di creare, nei luoghi di destinazione, una nuova etnia «atomizzata
», priva di una precisa identità, sotto il controllo delle autorità sovietiche. Ma
l’operazione Čečevica non raggiunse i risultati attesi. Tra i deportati ceceni e ingusci, entrati
presto in contrasto con la popolazione e le autorità locali, incapaci di inserirli davvero
nel nuovo mondo in cui erano stati trasferiti, si diffusero velocemente disorganizzazione,
fame e malattie. In condizioni di vita così precarie rinacque il tribunale degli anziani,
fu proclamato il divieto dei matrimoni misti, furono attivati meccanismi di aiuto alle
famiglie, si consolidarono i legami all’interno e tra i clan. Il sentimento religioso, peraltro
mai sopito anche nella terra di origine, rinacque più forte che mai costringendo persino
le autorità locali a cercare un modus vivendi con i mullah meno spigolosi. A niente valsero
divieti, punizioni o nuove misure restrittive volute da Mosca: ceceni e ingusci riuscirono
negli anni a mantenere ugualmente il loro spazio sociale, rafforzando la propria nicchia
etnica, e, dopo il XX Congresso e la destalinizzazione, furono tra i primi a partire per far
ritorno nelle proprie case.
Il rimpatrio, prima spontaneo, poi organizzato in seguito alla decisione presa il 9
gennaio 1957 dal Presidium del Soviet supremo dell’Urss in favore della ricostituzione
della Repubblica autonomia di Cecenia e Inguscezia, fu per loro un ritorno trionfale.
Così, il risultato della loro perseverante tenacia – alimentata da «vecchi arcaismi clanisti
sopravvissuti, a quanto pareva, ai colpi distruttivi della sovietizzazione, della collettivizzazione,
della deportazione e dell’esilio» (p. 124) – e delle loro continue pressioni fu la
decisione di molti di coloro che in quella terra erano andati a vivere al loro posto dopo il
1944 di abbandonarla per sempre.
Una storia dunque, quella dei ceceni e degli ingusci deportati, fatta di coraggio e
fiero, ostinato attaccamento alla propria identità religiosa e culturale, narrata in uno stile
talvolta non proprio scorrevole e inserita in un contesto molto complesso come quello
del terrore e delle repressioni staliniane che forse avrebbe avuto bisogno di un maggiore
approfondimento per il lettore italiano.

Elena Dundovich